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 2010  febbraio 21 Domenica calendario

IN VENDITA IL SALOTTO ANGIOLILLO

Quando scriveranno, prima i giornalisti e poi gli storici, la storia recente del potere romano, o del potere a Roma, o ancora del potere italiano romanizzato dagli usi e costumi, senza sfoderare per forza il ghigno antipatizzante contro l’Italia noantrista, dovranno partire da lì, da quel n. 8 di Rampa Mignanelli, meglio dell’11 di Downing Street, a mezzo cammino di Trinità dei Monti, quella villa Giulia che è stata la dimora di Renato Angiolillo potente direttore del Tempo, fino a metà degli anni Settanta, e poi regno incontrastato della solitudine di sua moglie, Maria, scomparsa lo scorso ottobre, che ha trasformato quel civico, quel portoncino, come un varco prezioso, un momento di passaggio nel rito di accesso alla Roma che conta e, dunque, al potere non gelatinoso ma reticolare che a Roma si forma e si consuma nei salotti e attorno al desco o nell’intimità più scasciata del dopocena. A villa Giulia, definita da Filippo Ceccarelli «una specie di tempio di pretesi ottimati, un sancta sanctorum di meraviglie del possibile, un santuario per devoti del Potere, e aspiranti tali», la donna Maria invitava secondo gusto e gerarchie e accorrevano tutti, sinistra, centro e destra, poteri curiali e poteri bancari, genti dei circoli teverini e gente dello spettacolo, starlette del demi-monde e severi esegeti di retroscena.
Ovviamente, chi stava fuori dal giro, deluso e piccato, di quegli incontri parlava male, fosse della cucina o della stucchevole ritualità, dell’ingessatura del protocollo o dell’inattualità dell’intrattenimento salottiero, ma si capiva che era solo il rodimento di chi tutt’al più avrebbe potuto stazionare, davanti a villa Giulia, in compagnia dell’estro paparazzatore dei fratelli Pizzi, autoelettisi a narratori per immagini di quelle serate in cui tutti fingevano, ma solo per un po’, d’essere infastiditi dai flash, salvo essersi aggiustati un secondo prima la giacca o l’impalcatura della permanente per essere certi che la propria presenza a Rampa Mignanelli fosse documentata in modo impeccabile. Fantastico è il bozzetto di confessione assieme imbarazzato e civettuolo che Lella Bertinotti porge all’esegeta principale dell’angiolillismo, Bruno Vespa, nel suo Donne di Cuori: quando lei e Fausto, allora presidente della Camera, andarono per la prima volta a cena da Donna Maria «e vidi sulle scale il fotografo di Dagospia, Umberto Pizzi, mi venne un colpo». Un colpo di flash, certamente. Il giorno dopo, come tutti i giorni approntava le sue chiacchiere fotografiche per sfornare suntuosi gossip e fantasmi di retroscena.
E insomma, Jole Santelli, con sincera irriverenza e compiaciuto snobismo da insider, diceva che «dall’Angiolillo c’è la scrematura pesante», con riferimento non alla scrematura del latte intero ma a classe, stazza e qualità degli invitati, degli ”attovagliati” tanto per utilizzare la gergalità di Dago, che a cadenza mensile venivano selezionati dagli Angiolillo. Era sì l’ingresso di una nuova dimensione, l’ascensore a una nuova panoramica sulle élite della Capitale, l’iniziazione a quel calendario antropologico di confidenze sussurate e barzellette dichiarate, strette di mano e sorrisi sottobraccio, brillantezza esibita e astuta raffinatezza con cui la romanità che conta dà forma, distante dalla cafonaggine festaiola, al suo potere sobrio che deve molto di più ai consumi della nobiltà nera e papalina che ai cascami decadenti della ”dolce vita”.
Anni fa Claudio Sabelli Fioretti andò ad appostarsi assieme a Umberto Pizzi davanti a villa Giulia, e mentre il cronista veniva lasciato all’addiaccio di una sera tardoautunnale (di lì a poco ci riprovò Fabrizio Ronconi), dentro gli invitati nella rigorosa composizione dei tre tavoli da dodici si spazzolavano paté di fois gras, faraona con farro, patate e castagne, ricotta con miele e spumone di nocciola. Aldo Cazzullo si è annotato, quasi stupito, un «bombe d’orange norvégienne, sauce au Grand Marnier». E il conto degli invitati di quella sera tra gli altri Sandra Carraro, Pisanu, Polito, Vegas, De Bustis di Deutsche Bank, Bruno Vespa, Gianni Letta, Maurizio Beretta, Belpietro, Francesco Caltagirone, ma compilare una lista attendibile del jet set sbarcato a villa Giulia è materia di un gigantesco catologo dei potenti, da Andreotti a Valentino) è sufficiente a capire perché la sora Maria poteva consegnare al Alain Elkann le seguente sentenza: «Casa Angiolillo è un punto d’arrivo», e su questo ci sono pochi dubbi, «ma da me non si fa politica», e su questo bisogna andare di interpretazione. Dalla Maria si era politica, infatti, nella declinazione altoborghese, salottiera e molto romana e molto soffusa dell’eterno motteggio «a’ Fra che te serve?», coniato non a caso da un altro che di salotti, inviti, ospitate e giri buoni d’affari se ne intendeva, Gaetano Caltagirone. Oggi villa Giulia è in vendita per tanti milioni di euro. Li vale, di sicuro. Chissà, da parte delle pubbliche istituzioni si potrebbe pensare di acquisirla per metter su un ”museo del potere” di rito romano, e raccontare ai posteri nel set più adeguato dove s’è apparecchiato un trentennio di classe dirigente.