DARIO CRESTO-DINA la Repubblica 21/2/2010, 21 febbraio 2010
GIORGIO DIRITTI
una sera di neve a Bologna. Cade grande come palmi di mano. una sera in cui hai bisogno di prendere un treno o di sapere che c’è qualcuno che ti aspetta in un posto da dove si può guardare fuori. Giorgio Diritti questa sera non parte. stanco di treni. Dice: «Vado a casa e preparo cena a mio figlio. Ha vent’anni, lo vedo pochissimo. Devo mantenere una promessa». Accanto alle scarpe ha posato lo zaino con la spesa fatta nel pomeriggio. «Mi piace più di tutto girovagare attraverso i mercati di quartiere, nei negozi e nei grandi magazzini, salire sugli autobus. Sono i luoghi che costituiscono la mia prima base di realismo. Sto in mezzo alle persone.
Osservo come sono vestite, come gesticolano, come parlano o sono perdute dietro i loro pensieri e le loro preoccupazioni, come si nascondono agli sguardi di coloro che incrociano e come all’improvviso possono diventare cattive e violente».
Diritti ama camminare da quando era un ragazzo. Lo ha fatto anche nelle valli occitane con l’amico Fredo Valle, autore del soggetto da cui è stato tratto il suo primo film, Il vento fa il suo giro, la parabola di uno "straniero bianco", un pastore fricchettone, sognatore e dall’umore straripante, respinto da un paese morente e duro. Ha solcato i costoni barbarici e dirupati della Val Maira, sopra Cuneo, un posto incantato e immobile nella sua selvatichezza di crocifissie lupi. Ha raccolto lassù le rocce dell’animo chiuso nello stesso modo in cui la piccola Martina, sguardo muto e narrante nell’ Uomo che verrà, ruba le pietre alla sua montagna bolognese e le nasconde in un interstizio della stalla come se fossero pane. Martinaè bellissima e povera. Hai sbagliato a nascere, dovevi venire alla luce in una famiglia di padroni, le dice la zia Alba Rohrwacher.
Martina non può parlare, eppure custodisce nelle mani e nelle gambe magre e nude la lingua del film. Dice Diritti: «Ci sono film in cui contano le parole, nei miei cerco di fare parlare il paesaggio e le parole non pronunciate. Vorrei essere capace di pulizia assoluta per evitare l’enfasi e la retorica. la ragione per cui giro tre battute per tenerne poi una sola.
Al montaggio taglio le scene un attimo prima piuttosto che un attimo dopo».
Nel film sulla strage di Marzabotto la morte è contadina. Piomba nei cortili come le falciatrici. Un vecchio si arrampica sulla punta di un albero e la guarda al lavoro, come se volesse sincerarsi che lo faccia bene. La morte viene raccontata mostrandole la schiena, come il soldato tedesco che scava la propria fossa immaginando soltanto il fucile che il partigiano impugna alle sue spalle e che lo ucciderà. Le mitragliatrici tedesche sparano in faccia alla macchina da presa. Di fronte ci sono famiglie intere avvinghiate negli ultimi affetti, i corpi vengono fatti a pezzi ma lo spettatore non vede. Sente. Ed è peggio. Dopo, l’inquadratura scivola sui cadaveri, gli abiti ridotti a stracci sanguinanti, i rumori dell’agonia dei moribondi e quell’ufficiale ragazzino che passa per il colpo di grazia con la precisione distratta dei meccanici. «La scena più dolorosa è stata la precedente, quella del trasferimento dalla chiesa al cimitero. C’erano molti bambini. Erano spaventati, ma i genitori sono stati meravigliosi. Dicevo loro: è solo un gioco, ma un gioco serio. A un certo punto della discesa, Stefano Bicocchi, l’attore comico che tutti conosciamo con il nome di Vito, mi ha detto con la voce rotta dall’emozione: ma questo è tutto vero... I bambini mi hanno molto amato». Dev’essere vero se il 21 dicembre gli hanno fatto una festa a sorpresa per i suoi cinquant’anni a Calderino di Monte San Pietro. La torta, le candeline, i canti con la musica del film. Nevicava anche quella sera. «Mi sono squagliato».
Giorgio Diritti è un regista che viene dalla musica. Suonava la chitarra nei Tebaldi rock, il primo gruppo di Luca Carboni. nato a Bologna da genitori di Rovigno d’Istria, un destino da profughi. Il padre bancario lo ha portato a Biella, a Genova, di nuovo a Bologna che aveva ormai vent’anni. Ha lavorato alla Fotoprint, è stato assistente fonico per Lucio Dalla e Vasco Rossi. Un giorno Cesare Bastelli, che era aiuto regista di Pupi Avati, gli dice: «Giorgio, ti faccio fare qualcosa, se ti va di provare». Prima c’è uno stage con Avati sul set di Noi tre, poi l’esperienza a Ipotesi Cinema, la scuola coordinata da Ermanno Olmi, e una lunga attività di documentarista. «I film che volevo fare io non li voleva produrre nessuno. Suonavo decine di campanelli ma le porte non si aprivano mai. Mi sono messo in proprio. Oddio, quasi. Ho trovato un socio coraggioso, Simone Bachini e assieme abbiamo creato ’sta roba qui, Arancia film ».
Poche stanze al primo piano di un palazzo di via Castiglione. Un ufficio piccolo e spoglio. Una scrivania, tre sedie, neppure una sua foto da ciak azione alla parete, solo un’immagine di Marcello Mastroianni e, su una bacheca di legno, qualche biglietto d’auguri, una cartolina con un babbo natale e una fotografia con la dedica di ringraziamento firmata sul retro da Alessandra Agosti, la musicista trasformata in attrice nella storia del Vento. Carlo Lizzani ha detto che, a suo parere, oggi in Italia ci sono soltanto tre grandi registi: Tornatore, Moretti e Diritti. Lui spiega di non ritenersi l’erede di Olmi, di non sapere nemmeno bene su quale sentiero professionale sta camminando. Ha studiato i ritratti psicologici di Kieslowski, la capacità di Fellini nel consegnare il racconto alle facce, l’ironia feroce di Chaplin, l’essenzialità crudele di Kubrick. «L’ho fatto per pura passione, perché sono i maestri del cinema che amo andare a vedere». Quel che è certo è che Diritti non appartiene alla casta narcisistica del cinema italiano. «Spero di mantenere la mia identità artistica e la semplicità».
Diritti racconta dal basso, come se passeggiasse sulla terra con la cinepresa assieme all’altra gente. «Penso di essere anch’io nel basso, là dove tutti si spogliano degli abiti del re, della principessa e pure del barbone. Non mi piacciono i film a tesi. I buoni da una parte e i cattivi dall’altra. La responsabilità del bene e del male è di ciascuno di noi e poi collettiva. Cerco di lasciare allo spettatore la possibilità di scegliere da che parte stare, se decide per quella più sgradevole è libero di farlo». L’uomo che verrà nasce da un lavoro di ricerca durato anni. Decine di interviste a ex partigiani, sopravvissuti, figli e parenti delle vittime. «Il cuore del film è la famiglia. Non mi interessava né avevo la pretesa di fare una ricostruzione storica, bellica o politica. Ho ascoltato uomini che mi hanno raccontato i tedeschi come altri uomini. La familiarità del pane e pomodoro, gli elmetti abbandonati nelle aie, il soldato che giocava coni bambini italiani ricordando i suoi lasciati in Germania ai quali costruiva cavalli di legno. Erano gli stessi uomini che poi si sono trasformati in carnefici, chi nell’obbedienza a un ordine, chi indottrinato e convinto dall’ideologia nazista». Sulle montagne bolognesi vennero trucidati più di duecento bambini sottoi dodici anni che fin lì avevano avuto un’altra vita. «Ho cercato di descriverla anche attraverso i ricordi della mia infanzia. I segreti del bosco, i nascondigli, le file di formiche, le lucciole messe in un bicchiere e portate sul comodino di casa, la voglia di scoprire il mondo affascinante e distante degli adulti. Curiosità rese macroscopiche dalla guerra che si era ingoiata la normalità. In sala, dopo la proiezione del film a Marzabotto, si è alzato un giovane dell’Anpi e ha pronunciato poche parole: questa è la nostra storia, qui c’è il regista al quale abbiamo affidato la testimonianza del senso della nostra vita e noi ora dobbiamo dirgli qualcosa. Si è seduto. Ci sono stati cinque minuti di silenzio, poi un vecchio partigiano si è sollevato dalla poltrona e ha detto: grazie ».
Ora Diritti sta riflettendo su due progetti. Vorrebbe cimentarsi sul mondo dei giovani trai ventiei trent’anni. «Nessuno sembra accorgersi di loro, del talento che possiedono, del futuro che portano dentro. Vengono usati soltanto in una dimensione commerciale». E poi un viaggio nella fede attraverso le vocazioni e le missioni. «Sono partito da credente, molto credente. Adesso comincio a nutrire qualche dubbio, coniugo la mia esistenza a Dio non più come un’adesione dogmatica, ma come una sfida.
Mi metto sempre dalla sua parte, d’accordo, ma tocca a lui dimostrarmi che esiste. Gli do atto che spesso avverto segnali molto forti, emozioni che non si possono descrivere se non banalizzandole. Ma non mi basta». C’è una terza cosa che gli sussurra nella testa. Ha preso forma con un titolo, solo questo per ora: L’apparenza, la sostanza e altre cose.
«Immagino due personaggi che percorrono l’Italia in senso contrario al fiume di gente che corre verso l’apparire come se fosse l’autentica dimensione dell’esistenza. Ecco, quei due dovrebbero andare nella direzione opposta, verso la riappropriazione biologica del senso dell’uomo. Lo so, è un discorso confuso e forse velleitario, ma ogni giorno metto da parte qualche piccola pietra di verità.
Credo che in questo paese esistano le energie per cambiare».
In Val Maira ha imparato che le pietre sono ottimiste. Sanno più degli uomini che le cose possono cambiare. Le rocce stanno lì e aspettano. Una grande nevicata bloccò le ultime riprese dell’ Uomo che verrà. Il finale venne girato due mesi più tardi. La natura nel frattempo aveva cambiato il paesaggio. Per il peso della neve un albero era precipitato proprio nel posto in cui Martina sarebbe dovuta passare con il fratellino salvato dall’eccidio tra le braccia. Dice Diritti: «C’era quell’albero, non potevo non utilizzarlo». Così ha chiesto a Martina di sedersi sul tronco caduto. E l’ha fatta cantare.