Fiamma Arditi, La Stampa 21/2/2010, pagina 33, 21 febbraio 2010
ABRAMOVIC’, L’ARTE A NUDO
Indossate il camice bianco, prendete il bicchierino d’acqua, chiudete gli occhi, portatelo alla bocca. Sentite il fresco dell’acqua sulle labbra, sul palato. Bevete lentamente per cinque minuti. Siete qui ora, non c’è passato, non c’è futuro».
Chi parla con voce calma e suadente non è un monaco buddhista rivolto a un gruppo di fedeli accorsi in un ritiro spirituale, ma Marina Abramovic’ di fronte a una cinquantina di giornalisti arrivati, sfidando vento e neve, al Museum of Modern Art per la sua conferenza stampa. Capelli lunghi corvini, corpo inguainato in un abito nero, tacchi a spillo, aria ieratica. Nella penombra del teatro del MoMA, l’artista serba (trapiantata a New York dal 2001) coinvolge il pubblico in questa specie di performance dimostrativa. Un assaggio di quello che fa da quarant’anni, per chi non lo sapesse.
La sua mostra, la prima grande retrospettiva dedicatale da un museo americano, comincia il 14 marzo e dura fino al 31 maggio: durante tutto questo tempo non aprirà più bocca, almeno con il pubblico. Seduta su una rigida sedia di legno nel grande atrio del museo dal mattino fino alla sera per tre mesi, dietro un piccolo tavolo, inviterà silenziosamente gli spettatori a sedersi sulla sedia vuota di fronte a lei e a fermarsi quanto desiderano. La tensione, l’interazione tra la Abramovic’ e l’altro sono la chiave del pezzo, The Artist is Present, ideato apposta per il MoMA. Sarà il più lungo di quelli creati fino a oggi, ma con gli altri avrà in comune improvvisazione, non ripetitività, finale a sorpresa. Fin da quando, a diciannove anni, si iscrisse nel 1965 alla scuola d’arte di Belgrado, Marina ha sempre usato il suo corpo come pennello, e al posto dei colori rischio, sadismo, masochismo, volontà. Il tutto imbevuto di un’energia e di un gusto per la sfida che sembra non venirle mai meno.
«La mostra comprenderà cinquanta opere e sarà cronologica», racconta Klaus Biesenbach, direttore del museo PS1 collegato al MoMA e curatore di questa retrospettiva. I pezzi-chiave saranno cinque. Il primo, Imponderabilia, è una riproposta di quello creato nel giugno 1977 alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna insieme con Ulay, nome d’arte per Uwe Laysiepen, suo compagno dal 1975 al 1988. Nudi, uno di fronte all’altra sotto l’arco di una porta, i due artisti costringevano gli spettatori a passare nello spazio libero lasciato tra loro e a decidere se rivolgere la faccia all’una o all’altro. Provocazione mista a impassibilità erano la molla di questo pezzo, che ancora oggi, riproposto a distanza di più di trent’anni, rimanda direttamente alla Abramovic’. Certo adesso lo lascia interpretare a ragazzi dai corpi giovani, mentre lei per settecento ore siederà impassibile nell’atrio del museo coperta fino al collo.
Anche Relation in Time è una riproposta del 1977. Un uomo e una donna siedono dandosi le spalle ma sono uniti dai loro lunghi capelli intrecciati. In Point of Contact, del 1980, la comunicazione tra uomo e donna avviene, invece, attraverso il contatto dei rispettivi indici. In Nude with Skeleton (2002-2005) è una donna sola, stesa per terra nuda con sopra uno scheletro, a cui sembra dare vita facendolo muovere col suo respiro, mentre in Luminosity (1997) una donna sempre nuda è sospesa davanti a un muro inondata di luce.
Se fino a poco fa a interpretare questi pezzi era lei, per la rassegna del MoMA la Abramovic’ ha addestrato trentasei giovani artisti che si daranno i turni durante tutta la durata della mostra. Video, schizzi, fotografie arricchiranno il percorso, facendo calare il pubblico in questa specie di avvenimento continuo. Guai a parlare a Marina Abramovic’ di collegamento con il teatro: «Il teatro è falso, mentre la performing art è realtà pura». Anche gli evidenti legami con il buddhismo li nega: «Il buddhismo usa molte tecniche», taglia corto. E il suo pezzo Breathing in, Breathing out dell’aprile del 1977 sempre con Ulay, dove per diciannove minuti consecutivi respiravano bocca a bocca allo Student Cultural Center di Belgrado? Provocazione o ispirazione?
Sintetizzare Marina Abramovic’ in una mostra, sia pure nelle vaste sale di un museo come il MoMa, non è facile. A chi un po’ la conosce basta il nome per evocare il suo bisogno di sfida, la voglia di stupirsi e di stupire, provare emozioni forti e nuove, come dimostrano le invenzioni di quando ancora ragazza giocava alla roulette russa puntandosi una pistola alla tempia, si schiaffeggiava per venti minuti con Ulay finché uno dei due smetteva (Dark/Light, 1977), invogliava gli spettatori a usare il suo corpo mettendo a loro disposizione su un tavolo settantadue oggetti, compresi aghi, forbici, scalpelli, rametti di rosmarino. L’opera, che verrà riproposta durante la mostra, si chiamava Rythm 0, consisteva in sei ore di performance realizzate per la prima volta allo studio Morra di Napoli nel 1974. Adesso il suo corpo è stanco, ma i ragazzi pronti a farsi addestrare da lei non mancano.
Fiamma Arditi