Simonetta Robiony, La Stampa 20/2/2010, pagina 33, 20 febbraio 2010
SERVILLO: VEDI NAPOLI E POI RECITI
«Goldoni non mi stanca mai: è attualissimo»: Toni Servillo è alla trecentesima replica di La trilogia della villeggiatura, in scena al Teatro Valle nell’ambito dell’omaggio che Roma ha reso a Teatri Uniti e a due dei suoi principali protagonisti: Licia Maglietta e Toni Servillo. Trecento repliche: la fatica della ripetizione è alleviata più dalla fiducia nel testo o dagli applausi del pubblico? «Entrambe: la critica a una borghesia incapace di leggere il futuro, dominata dall’ansia dell’apparire, ossessionata dal bisogno di vivere al di sopra delle sue possibilità è perfetta per raccontare il nostro presente. Poi c’è il mestiere dell’attore: artigianato puro. Serve pazienza, costanza, esercizio quotidiano. Più fai lo stesso personaggio, più lo comprendi e te ne impossessi riversando in lui ciò che ti accade. Sei mesi di teatro all’anno per chi crede in questo mestiere sono necessari. Anzi, più lo facciamo meno avvertiamo la noia e la fatica. La gioia di comunicare è contagiosa: noi la proviamo sul palco e la gente ce la restituisce dalla platea. Basta con quel teatro messo in scena da depressi a foglio paga! Il teatro è una festa collettiva e tale deve rimanere».
Se per sei mesi Toni Servillo, da oltre vent’anni con Teatri Uniti e prima ancora con Teatro Studio di Caserta, fa teatro, da qualche tempo, grazie a una serie di pellicole intelligenti e riuscite come Le conseguenze dell’amore, Gomorra, Il divo è diventato l’attore più richiesto del nostro cinema di qualità, tanto che tra pochi mesi, di suoi film ne sono attesi addirittura cinque. Eppure non è bello come Scamarcio, né famoso come Castellitto, ma la sua recitazione è talmente densa da valorizzare film non perfetti. Prima di Natale, per Raicinema, la Akaba e i tedeschi, ha girato in Germania Una vita tranquilla di Claudio Capellini nel ruolo di un boss che, per chiudere con la camorra, s’è nascosto in una foresta vicino Francoforte e s’è sposato con una tedesca. Ma il figlio maggiore torna e con lui il suo passato. «Non mi piace al cinema ripetere gli stessi ruoli, ma la camorra, per me che vivo a Caserta, è una realtà che non può essere accantonata. Va denunciata con qualsiasi strumento. Per di più stavolta dovevo anche recitare in tedesco. E questo mi tentava». In Francia ha terminato Un balcone sul mare di Nicole Garcia dove è un agente immobiliare dagli affari poco puliti che si muove tra la Costa Azzurra e Parigi promettendo la felicità di una casa su un mare sempre lucente. A Napoli, nel quartiere cinese dietro la stazione, per Stefano Incerti, ha fatto Gorbaciof scritto così, alla napoletana: l’incontro amoroso fatto di molti sguardi e pochissime parole tra un modesto contabile di Poggioreale chiamato come il leader russo per una voglia sulla fronte e una cameriera cinese, l’attrice Mi Yan, in mezzo a ristoranti, bische, merce falsificata, traffici, malinconie. Per Mario Martone, altra anima di Teatri Uniti, recita nel film sul Risorgimento Noi credevamo dal romanzo di Anna Banti, una lettura controversa di come è stata fatta l’Italia unita, nel ruolo di Mazzini: dalla Giovane Italia, all’esilio in Inghilterra passando per la Repubblica romana. E adesso chiamato da Molaioli sarà un dirigente della Parmalat nella storia che l’autore di La ragazza del lago si appresta a girare sullo scandalo Tanzi, una autentica tragedia finanziaria.
Non sono troppi cinque titoli in una sola stagione?
«Forse, ma per ognuno c’era una buona ragione. Io mi muovo sul progetto, non sulla quantità. Non ho paura di espormi. Non faccio calcoli di carriera. Recitare è sempre recitare, purché ci sia fedeltà e fiducia nel testo. Ma cinema e teatro sono l’opposto. Il cinema è moderno perché coglie l’attimo, va di fretta, corre, il teatro è antico perché è lento e migliora nel tempo».
Mai fatta televisione: è snobismo?
«No. Se arriva un buon progetto sono pronto».
Meglio Andreotti e Mazzini, la cui immagine è già nella testa di tutti, o inventare un personaggio di sana pianta?
«Meglio non essere costretti a lavorare su un’immagine che la gente ha già in testa. Per fortuna né Sorrentino né Martone mi hanno chiesto una imitazione fisica, ma una penetrazione psicologica».
Come chiedeva Rosi a Volontè?
«Volontè è inimitabile».
Si parla molto di Risorgimento in questo momento, lo si accusa di non essere stato unitario, di aver nuociuto al Sud: lei che idea ne ha?
«La nostra storia patria è discutibile, ma molte tragedie noi meridionali ce le siamo procurate da soli. Se ho una nostalgia è per la Rivoluzione napoletana del 1799 soffocata da un certo clero ottuso e da un borbonismo d’accatto».
Come mai un attore illustre si ostina a vivere a Caserta, la terra di Gomorra?
«Mi sono formato negli Anni 60, quando tra le cose che contestavamo c’era anche che solo Roma, in quanto capitale, poteva esser destinata a produrre cultura. E in questa idea continuo a credere, anche come testimonianza personale. Non è facile, ma voglio vivere nella mia terra, farmi vedere mentre passeggio, crescere i miei figli insieme a loro. Non dobbiamo continuare a fuggire: possiamo pensare di restare. Anche se siamo artisti: l’artista è un uomo come gli altri».
Non viene da una famiglia di artisti, eppure lei i e suo fratello Peppe con gli Avion Travel siete artisti. Come mai?
«Mio padre, i miei zii, l’intera mia famiglia lo spettacolo lo adorava. Da Afragola, dove sono nato, se ne andavano a piedi per cinque chilometri pur di vedere cosa c’era in scena a Napoli. Abbiamo cominciato ad amare lo spettacolo dallo stupore che scorgevamo nei loro occhi».
Come mai tanti attori sono napoletani?
«Per la bellezza della lingua, per la vivacità dei gesti ma anche per quella confidenza con la morte tipica della cultura napoletana, che non l’avverte come la fine di tutto, ma ci convive con ironia. E l’ironia è il paradosso dell’attore: star dentro e fuori da un personaggio: darsi e ritrarsi».
Simonetta Robiony