Clemente Solaro della Margarita, Memorandum storico politico, Speirani e Tortone. Torino 1851, 21 febbraio 2010
ARGOMENTI DI: SOLARO DELLA MARGARITA, MEMORANDUM STORICO POLITICO, SPIERANI E TORTONE, TORINO, 1851
(parte 1 - Vedi parte 2 in frammento n. 218090 e parte 3 in frammento n. 218229)
• «Se non lice in caso alcuno alterare la verità, se nel giudicare le azioni degli uomini conviene farsi carico di ogni circostanza onde non ledere la giustizia, molto più importa quando si tratta di Principi, ai quali solo Dio, da cui ricevettero il potere, sovrasta» [pag. 2]
• «Il Principe ha due volontà [...] Non fia chi mi contenda il dichiarare che combattei per principii che non trionfarono; tali però son essi, che non temono rovina, e mille volte soffocati, mille volte risorgono» [5]
• «Io scrivo pei contemporanei e pei posteri in un’epoca in cui non migliaia, ma millioni di libri escono di continuo dai torchi, e dopo il breve splendore di pochi giorni vanno negletti» [6]
• «La condizione del Re era difficile, sia verso alle Estere Potenze, sia nell’Interno; le memorie del 1821 ostavano sempre ad una piena fiducia, e mantenevano vive le passioni; però in quei quattro anni si andò guadagnando; Carlo Alberto acquistò esperienza dì governo, grande amore al lavoro, imparò a conoscere gli uomini. Così non avesse creduto che l’ir barcheggiando fra i diversi partiti era arte di Regno; in essa riesci a meraviglia, ma per sua sventura, e men piange il cuore; poiché l’anima sua era informata in modo da renderlo capace delle più grandi imprese, ed emulo Egli sarebbe stato di Emmanuele Filiberto se non fosse stato avvolto nelle faccende del 1821.
Fu quella un’epoca fatale per lui e per la patria nostra. Tristi coloro che quel cuore ancor giovane ed inesperto adescarono con fallaci speranze! Dotato P aveva Iddio d’una mente a nobili cose inclinata, e di rette senno per conoscerle, ne lo perdette mai; fu forviato da quelle speranze, perché le illusioni che le accompagnavano troppo eran belle e seducenti; ma non è tempo che io tocchi quest’arduo argomento ; narrerò prima quanto accadde durante il mio Ministero; e dopo i fatti discorrerò di Lui in modo che possano coloro che crederanno alle mie schiette parole, giudicare del suo carattere» [15-16]
• «Accolto dal Re con quella bontà e degnazione di modi che guadagnava ogni cuore, fu mia prima cura indagare quali fossero le sue inclinazioni, quale il carattere, il genio, l’umore.
Dal 1816 io era sempre stato nelle Legazioni all’estero, aveva sul conto di Carlo Alberto più cose sentite tutte diverse, e non sapeva a qual giudicio attenermi; però dovendo, fosse anche per poche settimane , servirlo in una carica di tanta importanza, mi conveniva scandagliare accortamente F animo suo. Dopo alcuni giorni di lavoro con lui, dopo aver trovato occasione di trattar diversi argomenti e discuter seco sopra vari affari, non mi rimase dubbio sulla perspicacia del suo ingegno , sulla perfetta cognizione che egli aveva della sua posizione politica come Re di Sardegna è speciale pegli antecedenti del 1821.
Generoso di carattere non mostrava astio contro i ben noti suoi nemici, non desiderio di vendetta per le ingiurie antiche, ne per le nuove. Vidi che gl’interessi della Religione gli stavano profondamente a cuore, e gemeva sulle tendenze del secolo contrarie alla Chiesa; però sull’autorità di questa a confronto della sua come Sovrano, incerto era il suo giudizio, non conoscendo i limiti rispettivi d’ambedue, troppo diversi pareri suonandogli intorno. Non senza somma soddisfazione conobbi quella nobiltà d’animo che tanto onora i Principi per cui dava piena libertà di pronunziare francamente il vero, e di esprimere opinioni contrarie alle sue. Tali qualità nel loro complesso erano preziose, preziosa me ne era la conoscenza, ma non riflettevano che il contegno a tenersi nelle relazioni personali. Le mire sue politiche erano di un immenso interesse per chi dava principio alla ministerial carriera, e queste non mi si occultarono fin dal primo giorno che riferii cose che concernevano i nostri rapporti colle Corti straniere. Non ebbi d’uopo di grande scaltrezza per iscoprire che oltre ad un giusto desiderio di essere indipendente da ogni straniera influenza, egli era sin nel profondo dell’animo avverso ali’Austria, e pieno d’illusioni sulla possibilità di liberar l’Italia dalla sua dipendenza. Non pronunziò la parola di scacciare i barbari; ma ogni discorso palesava il suo segreto. Quanto ai rivoluzionari egli li detestava, mostrava per loro disprezzo, ma li temeva ed era persuaso che e sarebbe tosto o tardi la vittima. Forse il Re voleva conoscere l’animo mio come io il suo, poiché nelle tre prime settimane che trattai con Lui d’affari, non v’ha argomento di politica, o ragione di Stato in cui non siasi tenuto discorso, né io desiderava meno di essere da Lui conosciuto, che di conoscer Lui; mi premeva ch’Ei sapesse fin dove io combinava colle sue viste e il punto che non oltrepasserei giammai; mi premeva fin dai primi giorni essere franco ed esplicito, onde non potesse mai coll’andar del tempo rimproverarmi di non aver sempre tenuto un eguale discorso, di non aver sempre professato i principii di cui nei primi giorni mi dimostrai seguace» [19-21]
• Anno 1835: «Il Conte Della Scarena [recte de L’Escarène, vedi scheda 199288] era detestato dai liberali moderati che allora soli osavano mostrarsi, mentre i più innoltrati dovevano prenderne il colore per non troppo urtare l’opinione che parea dominante in Corte. Apertamente professando principii religiosi e monarchici, volgendo tutte le sue mire a dar forza ai medesimi principii, era la sua amministrazione avversata da quanti non comportavano presso al Re un tal Ministro. Pur troppo malgrado il suo ingegno commise degli errori. Sapeva il Re geloso dell’influenza Austriaca, ed egli senza esservi astretto da alcun dovere d’uffizio era in un’intimità tale colla Legazione Imperiale, che parea non muovesse passo che a seconda dei suggerimenti della medesima [...] Nel giorno solenne della Pasqua il Re mi chiama e m’ordina di significare a quel mio degno collega, che gli ritirava il portafoglio dell’Interno, collocandolo col titolo di Ministro di Stato a riposo. Compiei l’ingrato incarico, il Conte Della Scarena non ne fu sorpreso, non si sgomentò, partì pochi giorni dopo da Torino giurando di non mai più accostarsi alla Reggia dove è così labile il favore, sono così repentine le cadute [...] Molti credettero che il Re precisamente lo tolse dal Ministero perché v’era entrato io, non volendo aver ministri fra loro concordi, e specialmente nelle idee da noi professate. Arte di regno poteva parere a Lui, avere consiglieri divisi d’opinione e di rapporti, e se tale fu il suo intento vi riescì a meraviglia, ma qual sia per esser sempre il deplorabile risultamento di tal massima, lascio a chiunque abbia cognizione d’affari, il deciderlo » [29-33]
• Anno 1835. «Io non ho mai compreso la necessità di renderci servilmente seguaci di quanto s’era fatto in Francia» [35, a proposito del nuovo Codice Civile, in preparazione]
• Anno 1835. «Ogni ragione volere che la giurisdizione della Chiesa rimanesse intatta con quelle cautele che al potere civile convenivano» [37, sempre a proposito del Codice civile]
• Anno 1839. «Un distinto Magistrato mi esortò fortemente a sostenere la dottrina patria, a trattar con Roma con fermezza per farla cedere alle nostre pretese, e mi ripeteva all’orecchio i due monosillabi aut aut, così doversi dir chiaro al Ministro del Papa; o a ciò vogliamo consentite, o ciò che vogliamo, faremo. Fermezza se adoperai, fu nel non lasciarmi muovere da tali irati eccitamenti, sebbene prevedessi che non me la perdonerebbero mai. Lo Stato civile fu regolato d’accordo colla Santa Sede, ma il ministro che aveva consigliato il Re, che non aveva resistito alla Corte di Roma, che non aveva almeno esacerbato la questione rendendola interminabile, non meritava più l’affetto nè i plausi, deviava dalle tradizioni del foro, dalle massime dello Stato, era più ligio a Roma che al Re; eppure i diritti di quest’autorità Sovrana che essi avevano più di me sulle labbra, io mi credeva di averli più di loro scolpiti nel cuore» [39-40]
• Anno 1835. Il conte Enrico di Bombelles, ambasciatore austriaco a Torino, poi precettore dell’«attual giovane Sovrano dell’Austria cui fu con raro accorgimento preposto» [cioè Francesco Giuseppe]. Costui s’intrometteva continuamente negli affari di Stato sardi con «non chiesti consigli» e pretendendo «esercitare grande influenza su tutti gli atti del Governo. Questo contegno urtava il Re [...] Cercai di farlo con buon garbo comprendere al Conte di Bombelles, non vi riuscii e fui costretto con atti che parevano inurbani convincerlo che era d’uopo cambiar attitudine [...] Quest’attitudine d’indipendenza verso l’Austria avrebbe dovuto procacciarmi gli applausi e i suffragi dei liberali, ma un segreto presentimento li avvertiva che ciò era in me l’effetto di giusta natural fierezza e non di un sentimento di avversione a quella Potenza, per cui non progredirei più oltre, e non griderei mai con essi fuori il barbaro. Ciò a loro non conveniva, poco grado mi sapevano del mio contegno, fingevano neppur avvedersene, nè avevano torto, poichè se cosa v’era che ritrarmi potesse dal mio sistema sarebbe senza dubbio stata la loro lode» [40-44]
• «Nel mese di novembre il Re andò secondo la sua consuetudine a Genova, il Conte Della Torre lo aveva sempre negli anni precedenti accompagnato , degli altri Ministri uno per anno a torno lo seguiva e rimaneva durante tutto il soggiorno ; quelli cui non toccava di muoversi andavano alla metà del mese per riferire gli affari riguardanti le loro Segreterie. Vollero escludermi, e se riuscivano, poco avrei durato nell’uffizio, facil cosa era durante quell’epoca stravolgere le mie idee, darne ben diverse al Re sulla politica, sull’andamento degli affari che da me dipendevano, e attraversare ogni mio piano. Capii che era questione vitale, esposi al Re le ragioni per cui potevano gli altri Ministri essere per alcune settimane lontani da lui senza detrimento pel servizio, ma non mai quello degli Affari Esteri che non può molte volte procrastinare le risposte alle note delle Corti, come lo possono quegli dell’Interno e delle Finanze alle lettere degli Intendenti delle Provincie, e quanto più essenziali erano gli affari che maneggiava, tanto più importante che fossi in grado di esplorare di continuo la volontà del Sovrano. Il Re si persuase e forse già erasi avveduto del motivo e del fine per cui altri mi contendeva di accompagnarlo. Io lo seguii in questo e negli anni successivi, cosiché durante tutto il periodo del Ministero non accadde mai che il mio portafoglio sia andato nelle mani di alcuno dei miei colleghi neppur per un giorno.
Mentre eravamo a Genova fu cambiato il Ministro Austriaco: il degno Conte di Bombelles essendo collocato presso l’Arciduca Giuseppe Francesco, ebbe il suo luogo il Conte Brunetti. Il Principe di Metternich che era assai di me malcontento, ma che non voleva dimostrarlo, mi fa dire che era stato determinato a quella scelta sapendo l’amicizia che fra noi regnava sin da quando eravamo colleghi alla Corte di Madrid; io però non dimenticavo che le nostre relazioni particolari erano come conveniva a due Ministri, che sebbene di diverso Stato in paese Estero ci consideravamo come della stessa patria , essendo egli di Massa, ma che come diplomatici ben di rado andavamo d’accordo. Egli era della scuola dottrinaria, e prima di essere al servizio d’Austria professava principii assai liberali, la reciproca maniera di trattar gli argomenti politici era in noi poco analoga. Pur mi piaceva quella scelta, perché sperava che le intenzioni e le viste dell’Austria vestite della scaltrezza Italiana avrei più facilmente comprese che se fossero rimaste occulte dietro l’impassibilità Tedesca.
Appena aveva messo il piede sul territorio il Conte Brunetti mi che campo a conoscere che la gentilezza del Principe Metternich a scegliere un amico mio per rappresentare l’Imperatore presso al Re aveva per suo principale scopo di balzarmi dal mio posto. Io era in Genova; il Ministro di una Corte Italiana che vi si recava incontrò nel passar per Alessandria il Conte Brunetti che giungeva da Milano e s’avviava a Torino. Nel discorso che ebbero insieme, il nuovo Ministro Austriaco si spiegò a mio riguardo in modo da non lasciarmi il menomo dubbio, quando le sue parole mi furono da quel diplomatico riferite, sulle istruzioni di cui era munito e sulla natura dei rapporti che esister dovevano fra noi. Il Principe Metternich aveva in quel tempo ragione di volermi allontanato, l’accaduto col Conte di Bombelles gliene dava il diritto, ma ebbe troppa fiducia nella scaltrezza del suo Inviato che con quella rivelazione assicurò la mia permanenza al Ministero ; ne poteva essere altrimenti, appena il Re fu informato dei progetti che s’avevano a Vienna in cosa di tanto rilievo pel suo servizio.
Ciò non impedì, che giunto a Torino non accogliessi colla dovuta urbanità l’Imperiale Ministro, non gli lasciai mai sospettare che aveva il suo segreto, egli si mostrava meco l’antico amico della Spagna, e ricevendo come sincere le sue proteste, ne avendo timore che mi soverchiasse non mi presi pensiero degli inutili passi che avrebbe tentato per compiere Soggetto di sua missione.
Così finì il primo anno del mio Ministero, ma finirei male questo capitolo se non facessi menzione della gita del Rè fatta nel settembre di quest’ anno a Genova mentre vi imperversava il colera e mieteva tante vite. Il Re visitò gli Spedali, consolò gli infermi, soccorse i poveri, provvide quanto era possibile alla salute di tutti infondendo specialmente coraggio e fortezza negli spaventati abitanti di quella popolosa Città.
Benedì la Provvidenza il generoso paterno pensiero e da quel giorno il fatal morbo diminuì d’intensità e poco a poco disparve. Oh non fìa mai che si perda la memoria di tutto quel bene che ha operato lo sventurato Monarca!» [58-61]
• «Mi rammentava, così rispondendo al conte dell’Alcudia, quelle parole di Macchiavelli [sic, invece di Machiavelli] al capo X del libro II dei discorsi sopra Tito Livio: «Nè può essere più falsa quell’opinione che dice, che i denari sono il nervo della guerra. L’oro non è sufficiente a trovare i buoni soldati; ma i buoni soldati son ben sufficienti a trovar l’oro» [67]
• «Non v’ha dubbio esser maggior gloria mantenere l’indipendenza delle proprie azioni che cercarla nel dilatare i dominii» [70]
• Anno 1836. Decisione di non aderire al blocco della Svizzera, «agitata dalle fazioni», deciso da Austria e Francia. Risponde seccamente al conte Brunetti, ministro di Vienna a Torino, «che prima che vedessimo le Truppe Francesi da un lato e le Austriache dall’altro, le Truppe Sarde non si avvicinerebbero alla Svizzera». «Noi vedevamo con non miglior occhio dell’Austria i progressi dello spirito rivoluzionario nella Svizzera, donde minacciava per le mene della propaganda liberale diffondersi, nè avevamo dimenticato la pazza, ma colpevole aggressione in Savoja [Savoia] del 1834; però persuasi della poca efficienza di quella misura, non eravamo disposti a contribuirvi e a renderci odiosi a quelli fra i Cantoni Svizzeri che non ci avevano offeso mai, e nei quali avevamo gran numero di amici da coltivare specialmente nel Vallese». «Depuis 1830 les canons des Puissances n’étaient chargès qu’à mitraille de protocolles» (Cretineau Joly, «distinto scrittore della storia del Sonderbund»). [71-75]
• Lord Palmerston, «campione di tutti gli spiriti torbidi delle varie parti d’Europa» [73].
• «Il Ministro di Prussia per corteggiare l’idea prediletta di Federico Guglielmo III, che aspirava di essere il protettore di tutti i Protestanti d’Europa, non tralasciava di favorire con quella misura dalla Religione del Re Carlo Alberto concessa, i Valdesi, ed in generale tutti i separati dal Cattolicismo -che trovavansi in Piemonte. Un tal Buscarlet, Ministro protestante, predicava in Nizza nel Tempio che si era per quel culto aperto durante il regno di Carlo Felice, l’autorizzazione rinnovata nel 1835 al Governatore di Nizza, era in quanto egli non vi vedrebbe inconveniente. Si predicava in Tedesco alle famiglie Svizzere colà stabilite, né così vi era rischio di pervertire i Sudditi Cattolici. Nemmeno con questa cautela non si sarebbe da Carlo Alberto aderito, se già il Tempio non fosse stato dal suo Predecessore concesso. Ora il Buscarlet non sapendo il Tedesco, predicava in Francese, e gli fu inibito di proseguire; il Conte Truchsses prese caldamente l’impegno per lui, ma la proibizione non fu rivocata, alla nota del Ministro Prussiano risposi facendolo avvertito, che siccome fra i Protestanti stabiliti a Nizza, non v’era alcun Suddito Prussiano, io avrei ogni ragione di non por mente alla sua nota ; stabilito questo principio, gli diedi quelle spiegazioni che la cortesia esigeva verso il Ministro di una Potenza amica, per giustificare l’operato del Governatore di Nizza» [76-77]
• Anno 1836. Divisioni tra i realisti, riceve il Cordone dell’Annunziata, «da quel giorno i miei emuli non cessarono di combattermi» [85]
• Anno 1837. Guerra di Spagna (carlisti). «Sua Signoria non poteva darsi pace, che una potenza di secondo ordine, la Sardegna specialmente, antica alleata della Gran Bretagna, non piegasse mai alla sua volontà, alle osservazioni che di continuo mi faceva giungere per mezzo del signor Foster, e poiché io professava principii diametralmente opposti a quelli di Lord Palmerston, Sua Signoria a me attribuiva il fermo contegno del Re che era pur tutto suo, e divenni per quel Ministro oggetto d’antipatia che palesò negli articoli de’ suoi giornali, e persino in una nota che comunicò a tutte le Corti a proposito delle nostre differenze col governo di Madrid» [93-94]. Fastidio di Luigi Filippo per la nomina di Fabio Pallavicini a ministro in Napoli [101].
• Anno 1837. « vero che la Corte di Sardegna non amò mai che la Francia esercitasse influenza nello Stato, e non vedeva mai di buon grado che gli Ambasciatori dei Re Cristiani talvolta facessero prova di stabilirla, ma siccome la medesima attitudine ripugnava quando era presa dall’Austria, si condussero sempre gli uomini di Stato che mi precedettero fin dal tempo del Re Vittorio Amedeo II, in modo da temperar le pretese delle due Corti rivali e nostre formidabili vicine, inclinando sempre a quella delle due che più rispettava la nostra indipendenza, e così togliendo all’altra il prestigio di dominarci. Ma in tempi di rivoluzione la cosa è diversa, e la sola salute dello Stato è norma a chi ne ha la risponsabilità. Luigi Filippo inalberando il vessillo tricolore, accettando la Corona dagli eroi delle barricate, era agli occhi di Carlo Alberto un’usurpatore, ed i principii da lui professati considerava come un pericolo per la quiete de’ suoi Stati» [102]. In 103-105 altri contrasti con il ministro francese di Rumigny.
• I duchi di Orlèans in giro per l’Europa in cerca di spose, rientrati poi di corsa alla notizia del colpo di fucile sparato da Aliband a Luigi Filippo. «Non credo che pensassero alla sorella del principe di Carignano; ad ogni buon fine il Re dispose che si recasse, appena seppe che verrebbero i Duchi, in un convento in cui soleva ritirarsi» [107]
• «L’Inghilterra a noi così poco favorevole a motivo della Spagna volle in quest’anno intervenire a sostegno dei Valdesi delle Valli di Pinerolo, che non avevano ragione alcuna di lagnarsi del generoso modo con cui erano dal Re trattati. S’incaricò il signor Poster di trasmettermi accompagnata da una sua nota, una rappresentanza di alcuni sudditi Valdesi al Re, che richiamavano contro L’applicazione degli Editti antichi mantenuta in vigore a loro riguardo. Il Re a fronte di sì possente avvocato, e delle circostanze del momento, non piegò nel sostenere i suoi diritti e respingere la straniera intervenzione. A tale effetto ebbi ordine di rispondere ufficialmente all’Inviato Britannico, essere il Re sorpreso che alcuni fra i suoi sudditi avessero cercato un’ intermedio straniero per sottomettergli le loro rappresentanze , che quanto al modo con cui erano trattati i Valdesi, il Re dacché era salito al Trono non aveva emanato alcuna disposizione che restringesse le concessioni loro accordate dai suoi Predecessori; che non era di sua dignità far caso dell’epiteto di odioso, dato agli Editti che i suoi Antenati avevano emanati in tempo di guerre civili e di ribellione per parte dei sudditi Valdesi, Editti d’altronde assai men severi a riguardo dei Protestanti, che non lo fossero quelli emanati a riguardo dei Cattolici in altri Stati.
Questa risposta, e specialmente per l’ultima allusione poté spiacere all’inviato Inglese, ma chiuse la discussione e non si cedette alle rimostranze del possente Governo. Vi era inoltre una circostanza assai pungente che non conveniva esprimere nella risposta ufficiale alla nota del signor Foster in cui si menzionavano i Trattati che guarentivano ai Valdesi i loro privilegi, ma che poté benissimo essere enunziata senz’aria di recriminazione nei discorsi verbali. Nel Trattato conchiuso all’Aja nel 1690 fra il Duca Vittorio Amedeo, l’Inghilterra e gli Stati generali, e nel Trattato di Torino del 1704 fra il medesimo Sovrano, e la Regina Anna d’Inghilterra vi furono articoli segreti riguardanti i Valdesi. Il primo aveva per oggetto di far loro perdonare le ribellioni di cui eransi resi colpevoli, di far cessare le misure di guerra prese in loro odio, e di restituir loro il beneficio degli Editti di tolleranza; nel secondo nulla di più si stipulava a loro favore; ma è questo Trattato medesimo quello in cui l’Inghilterra s’impegnava a guarantire alla Casa di Savoja la successione eventuale alla Corona di Spagna, e mi pareva che non era il momento a scegliere dall’Inviato Britannico per richiamarne la memoria» [107-109].
• «Noi non ammettevamo influenza, e ancor meno ingerenze straniere» [109].
• «Quest’attitudine sostenuta non verso una, ma verso tutte egualmente le Potenze, rese a poco a poco persuasi i Ministri accreditati presso il Re, che noi non ammettevamo influenza, e ancor meno ingerenze straniere, e che i loro passi non sortirebbero mai alcun effetto se non si limitavano agli affari che riguardavano esclusivamente le loro Corti. Al tempo stesso, sempreché si trattava di questi affari, io poneva altrettanta premura in soddisfarli ogni qual volta avevano ragione, che per parte mia credo mai non abbiano avuto a lagnarsi di lentezza, o di poca sollecitudine. In tal modo si adattarono non solo al sistema che era giusto seguire, ma mostrarono di essere paghi dei loro rapporti col Ministro degli Affari Esteri. Lagnavansi bensì delle poche comunicazioni che da me ricevevano sopra gli affari politici in generale, e sulle vedute del Re intorno ai medesimi; ma come poteva io pascolare la loro curiosità, mentre avrei dovuto più volte ingannarli e dir loro ciò che era il segreto del Re e il mio, ne da rischiare che fosse divulgato? Ingannarli ripugnava al mio carattere, e ne fo qui formai dichiarazione, di non aver loro mai scientemente mentito in qualunque affare di rilievo m’interpellassero, ed ove era impossibile dir il vero, volgeva il discorso in modo da far loro comprendere che su quell’argomento non li farei paghi. In tanti anni di Ministero e di quasi quotidiane conferenze con tanti Diplomatici che ogni arte adoperavano per indagare ciò che non sempre conveniva palesar loro, mi convinsi che non era poi così difficile il trarsi d’impiccio senza menzogna, ed essere verissimo, che molte volte il miglior modo d’ingannare, senza deviare dalla linea delle cose oneste, è dire la verità su quanto si può, e tacere su quegli argomenti sui quali non si vuole esprimere. Se parlo di tal contegno è perche ho 1’amor proprio di ricordare che giustizia su questo particolare mi fu resa da tutti i Ministri delle Estere Potenze.
A proposito di lealtà dichiaro in questo luogo che le corrispondenze dei Ministri Esteri non furono mai sorprese, né dissigillate, né lette. In tredici anni di Ministero, una sola eccezione ebbe luogo a questo sistema, e fu per certi dispacci del signor Quadrado Incaricato d’Affari di Spagna non riconosciuto, dispacci confidati ad un viaggiatore che diede luogo a sospetti. Ma eravamo allora in tali relazioni colla Spagna, in uno stato più di ostilità, che di pace, e mi credetti nel diritto di praticare quest’atto così ripugnante al mio modo di sentire, che non ebbi animo di rinnovarlo. Se mai accadde che qualche Estero Ministro abbia spediti dei dispacci alla posta, coll’intendimento che io ebbi quando scrissi alla Corte di Vienna intorno al Conte Brunetti, come dirò a suo luogo, mancò lo scopo, io non ne ho mai letto alcuno, né di Francia, né d’Austria, né di Napoli, né di qualunque altra Corte, né quelli diretti agli agenti diplomatici, né da questi alle loro Corti. Quod honestum sit id esse solum bonum, lo dichiarava Cicerone: quanto più dobbiamo professare tal massima noi, eruditi da ben più alta sapienza!» [109-111].
• Anno 1838. Scansiona I-II del capitolo VI, pagg. 112-117.
• Anno 1838. «Reggeva a Buenos Ayres (Buenos Aires) la Repubblica Argentina, qual Dittatore il celebre Rosas, la reggeva da tiranno: non avevamo alcuna simpatia per lui, ma più di 15 mila sudditi del Re stabiliti ne’ territori della medesima, e il gran commercio de’ Genovesi al Rio de La Plata per cui si dovevano sempre tener Legni da Guerra in quelle acque per proteggerli, rendeano necessario che la loro situazione fosse guarentita nell’interno del paese e i loro interessi messi a riparo dalle prepotenze del Dittatore». [123-124]
• «A tutela della Società si era conchiusa fin dal 1836 una convenzione col Gran Duca di Toscana per la reciproca consegna dei malfattori, in questo tre altre per eguale oggetto furono stipulate colla Francia, coli’ Austria e col Duca di Lucca. La Francia volle eccettuati i delitti politici e ben a ragione, poiché quelli che ave vano, violando ogni legge nel 1830, fondato il Governo, non potevano considerar colpevoli quanti in altri Stati cercassero d’imitarli. Tale idea prevale in molti a’ giorni nostri; s’invoca l’umanità, si scusa P errore, si loda il pensiero, se ne censura appena l’atto quando trattasi di chi ha cospirato contro gli ordini legittimi. Quest’ idea è affatto contraria ad ogni principio di giustizia, è nell’applicazione più funesta che se si estendesse agli altri delitti, minori tutti al paragone di quelli che altre volte si comprendevano fra i crimini di lesa Maestà e di alto tradimento. L’assassino, il ladro, il falsario sono terribili per gl’individui, i delinquenti politici lo sono per un’intiera società, ed è davvero strano il concetto che non abbia ad aversi riguardo a chi minaccia, e offende separatamente pochi membri della stessa società; e la pietà, la pubblica universal tutela debba coprire, riparare, far salvi coloro che la rovina tentano di quegli ordini, che la quiete, la sicurezza, i diritti guarantiscono di un’intiera Nazione. Si comprende che stabiliscano tal massima coloro, che vogliono riservarsi rifugio e scampo in caso di non riescita di tentate cospirazioni, ma che la professino altri alieni dal prendervi parte, non può spiegarsi se non per la tendenza dell’ età presente ad adottare tutti i principii, cui stupida riverenza pel falso spirito filosofìco fa considerar come sublimi : però l’umana Società non riprenderà stabile situazione, finché il terrore e la vendetta delle leggi seguano in qualunque terra ai malaugurati che ne turbano il riposo. Le Nazioni devono essere solidarie le une verso le altre della lor sicurezza interna, e quella che protegge ed accoglie nel suo seno i nemici di un’altro Stato, si dà essa stessa in mano ai nemici suoi, e né giustifica gli attentati. Principii son questi che non piacciono, perché la falsa dottrina li condanna; imparino gli uomini la vera, e li rispetteranno» [125-127].
• «Le viste amministrative d’uno Stato [...] esser devono sempre paterne verso tutte le classi dei sudditi» [130]
• «Durante tutto il tempo del mio Ministero andai assai guardingo nella scelta degli Uffiziali Consolari, li voleva di conosciuta probità, intelligenti, disinteressati e religiosi; a quest’ ultima qualità poco si bada, ed è della massima importanza, e a più d’uno io feci osservare che non avrei creduto mai che fosse sinceramente fedele al Re chi non si rammentava de’ suoi doveri verso Dio: non pretendeva che si segnalassero in atti di pietà, ma che non si facessero rimarcare in senso contrario. La cosa era più essenziale negli Scali del Levante e dell’Affrica [Africa], ove trovandosi in contatto coi Musulmani, non voleva che fossero di scandalo pel nome Cristiano ; si chiamerà tal mia idea bachettoneria, ma servì mirabilmente anche agli interessi materiali che dovevano tutelare il concetto in cui erano per la loro condotta i Consoli Sardi. Eccezioni ve ne furono; è impossibile altrimenti, ma poche. Di preferenza sceglieva i Genovesi, perché essendo Liguri quasi tutti i padroni di navi, desiderava che trovassero per assisterli dei concittadini, ma la carriera era aperta egualmente ai Piemontesi, ai Savoiardi, ai Sardi. Agli occhi miei non vi fu mai differenza fra i popoli di una, o dell’altra Provincia dello Stato, sia per la carriera Consolare, sia per qualunque altro impiego da me dipendente: la qualità di sudditi del Be li poneva al mio cospetto tutti in egual condizione. Per immedesimare colle gran famiglie gli ultimi venuti a farne parte, conviene accarezzarli, non si fa in ciò torto agli altri: esistono pur troppo queste rivalità da Provincia a Provincia, ma se chi governa è imparziale, a poco a poco si dileguano. Nominerei di buon grado alcuni Consoli che più si distinsero, ma non voglio pregiudicare la considerazione cui hanno diritto quelli che non comprenderei nella lode. Alcuni si lagnarono del mio rigore, comprendo la querela in chi ne fu l’oggetto, ma un solo non havvi che nel suo interno non sappia che non vi fu mai dal canto mio né arbitrio, né ingiustizia.
E questo basti in quanto ai Consolati, ai quali col tempo divisava di dar ferma migliore, quando l’esperienza che in molti anni di Ministero andai acquistando, mi fece conoscere le mutazioni necessarie; mi vi preparava, allorché lasciando l’ufficio, lasciai ad altri la cura di attivare molti de’ mie» concetti» [135-136].