Glauco Maggi, Libero 18/2/2010, 18 febbraio 2010
C’ERA UNA VOLTA IL NEW YORK TIMES
E per la seconda volta in 7 anni la Signora in Grigio arrossì di vergogna. La Gray Lady della stampa mondiale, nomignolo del New York Times guadagnato quando aveva meno foto a colori e maggiore autorevolezza (o forse solo una minore concorrenza), ha preso atto che un suo redattore finanziario ”copiava e incollava” interi brani tratti da articoli già apparsi su siti web altrui e li usava per i suoi servizi, senza attribuirli a chi di dovere.
In poche ore, Zachery Kouwe, questo il nome del giornalista (giovanotto di razza bianca), è finito sotto inchiesta interna e si è volontariamente dimesso per evitare l’ovvio licenziamento. La segnalazione delle scorrettezze di Kouwe era arrivata ai vertici del Times direttamente dalla ”vittima”, il concorrente Wall Street Journal, che aveva spedito una lettera «per richiamare l’attenzione su un certo numero di rassomiglianze tra un articolo del 5 febbraio apparso sul web site del Wall Street Journal», come ha riportato ieri lo stesso New York Times dando la notizia delle dimissioni di Kouwe, «e articoli che sono successivamente apparsi nelle edizioni online e su carta stampata del New York Times».
Prima copiava per il suo blog
Fin da lunedì scorso, nella sezione dedicata alle rettifiche, l’editore del Times aveva pubblicato una nota ammettendo che Kouwe, che in prima battuta aveva scritto il servizio ”copiato” dal sito del Journal per il suo blog DealBook su ny-times.com , «sembra essersi impropriamente appropriato di parole e passaggi pubblicati da altre società di notizie», tra cui il Wall Street Journal e la agenzia Reuters. L’editore preannunciava «azioni appropriate coerenti con i nostri standard di protezione della integrità del nostro giornalismo», e il giorno successivo, dopo un incontro della direzione con Kouwe, presenti rappresentanti dell’azienda e del sindacato dei giornalisti, sono arrivate le dimissioni del giovane giornalista. Kouwe, sulla trentina, era da due anni al Times dopo aver lavorato tre anni per le pagine finanziarie del New York Post e, in precedenza, per la Dow Jones Newsletters (queste due testate, come lo stesso Wall Street Journal, sono parte della News Corp di Rupert Murdoch).
Il caso eclatante di Jayson Blair
Con Kouwe, la storia infinita dei plagi si degrada da vera tragedia a fatto di piccolo cabotaggio. Il caso di Jayson Blair fu di ben altro spessore, sia per la natura e il numero delle violazioni professionali sia per la copertura fornita al reprobo dai suoi padrini interni. Blair era un ”brillante” redattore afro-americano, invidiato dai colleghi per la frequenza degli articoli su casi nazionali che raggiungevano la prima pagina. Il problema è che li scriveva da un bar dell’Upper West Side, millantando trasferte in altri Stati e arrivando a mentire sulle note spese di viaggi e alberghi. Come nel caso del cecchino e del suo amico minorenne che sparsero il terrore in Virginia, uccidendo a vanvera persone innocenti alla pompe di benzina o nelle strade. O come quando finse di andare in Texas e invece
copiò da casa un pezzo scritto da Macarena Hernandez per il ”San Antonio ExpressNews”: la giornalista, che aveva fatto uno stage al Times e aveva conosciuto Blair, segnalò il plagio al giornale newyorkese e da lì iniziò la scoperta dei suoi tanti altarini. La commissione che indagò dopo che il giovane ram-
pante rassegnò le sue dimissioni per manifesta cattiva condotta concluse che almeno la metà degli articoli scritti erano altamente sospetti di essere stati inventati in tutto o in parte. Il modus operandi di Blair prevedeva due stili: il saccheggio di interviste fatte da altri o per telefono, corredandole di dettagli fasulli per far vedere di essere stato faccia faccia con i personaggi; oppure la semplice invenzione di episodi ”rilevanti”.
La rapidissima carriera interna
Lo scandalo nello scandalo fu la sua carriera interna: fu promosso dai vertici in omaggio alla diversity alla redazione nazionale, malgrado i primi capiservizio che lo avevano conosciuto avessero capito la sua inaffidabilita’ e l’avessero anche denunciata in rapporti interni.
Non a caso, quando dovette alla fine dare la notizia, il Times pubblicò un mea culpa da 7239 parole, cioè alcune pagine fitte fitte, e scrisse «che era stato toccato il punto più basso nei 152 anni (allora era il 2003, ndr) di storia del quotidiano». Il direttore Howell Raines e il suo braccio destro esecutivo Gerald M. Boyd, responsabili di aver favorito Blair nella sua ascesa infausta, lasciarono il giornale un mese dopo il loro pupillo. Il quale, nella sua ”grandezza” da falsario, non può neppure vantare di essere stato il primo ad infangare una testata gloriosa. C’era già stato il caso della rivista The New Republic. Negli Anni Novanta la sua penna più ”brillante” Stephen Glass si inventò di sana pianta, o esagerò di dettagli falsi, una lunga fila di storie da copertina. Ma quando scrisse di un convegno mai avvenuto di hackers, un giornalista esperto di informatica del sito di Forbes Digital Tool che cercava riscontri sul meeting scoprì che era una bufala.
Ma queste bufale non pascolano mai sole: anche gli altri ”scoop” di Glass furono passati ai raggi x, e ne emerse tanta fantasia da farci un film divertente, Shattered Glass (il titolo è un gioco di parole: glass significa anche ”vetro” e shattered ”fatto a pezzi, in frantumi”).