Dino Martirano, Corriere della Sera 18/02/2010, 18 febbraio 2010
«CHIAMATEMI PRESIDENTE». L’ULTRACONSERVATORE CHE LAVORO’ CON IL PDCI
«Chiamatemi pure presidente...». Disse così Achille Toro ai suoi collaboratori quando, nel 2006, spuntò a sorpresa come capo di gabinetto del ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi, il rettore dell’università di Reggio Calabria scelto da Oliviero Diliberto per rappresentare i comunisti italiani nel secondo governo Prodi. Tuttavia, pur accettando di chiamarlo con deferenza «presidente», ai piani alti di piazzale della Croce Rossa tutti si chiesero che ci faceva nella squadra dei Comunisti italiani un magistrato ultraconservatore – cresciuto, per altro, nella componente più a destra di Unicost – inviso alla nuova generazione di toghe riformiste decisa a rompere con il passato a prescindere dagli orientamenti di corrente. Che ci faceva lì, con la squadra di Diliberto, uno che pur avendo consumato la sua carriera negli uffici di procura poi non aveva mai dato segnali di ostilità nei confronti dei politici?
Il consigliere Achille Toro’ oggi che lascia la magistratura ha 68 anni e 40 anni di carriera alle spalle – non si è occupato solo di inchieste giudiziarie e di pool investigativi per i reati contro la pubblica amministrazione (caso Cirio e archivio Genchi, tanto per citare due fascicoli delicati). Oltre a fare il capo di Gabinetto di Bianchi, è stato consigliere togato del Csm tra il 1998 e il 2002, quando il vice presidente era l’avvocato Giovanni Verde, e ancora prima fu distaccato in via Arenula con il ministro Morlino.
Poi, quando scoppia il caso Unipol, arriva la prima grana. Dalle intercettazioni emerge il nome del consigliere Toro nel ruolo presunto (e poi smentito per lui da un successivo decreto di archiviazione dei giudici di Perugia) di «gola profonda» della Procura di Roma in combutta con il presidente Castellano del tribunale di Sorveglianza di Milano. Si parlò molto di quella presunta fuga di notizie per mettere sul chi vive Giovanni Consorte, interessato alle inchieste sulle scalate bancarie del 2005, ma alla fine su Toro non fu trovato nulla di concreto.
La storia, però, si ripete. Toro, designato dal procuratore di Roma Giovanni Ferrara come responsabile del pool per i reati contro la pubblica amministrazione, riappare in prima pagina una settimana fa quando da Firenze iniziano a volare gli stracci sugli ultimi grandi eventi (dal G8 mancato alla Maddalena, ai Mondiali di Roma dell’estate 2009) gestiti dalla Protezione civile di Guido Bertolaso. Quando le carte fiorentine tirano in ballo Toro, e suo figlio Camillo, per l’ennesima fuga di notizie – che stavolta interessa il costruttore Diego Anemone e Angelo Balducci, presidente del consiglio superiore dei lavori pubblici – rimangono di stucco molti colleghi di piazzale Clodio, i consiglieri del Csm e i vertici dell’Anm. All’inizio il procuratore aggiunto tiene botta: si spoglia della conduzione del pool dei reati contro la P.A. Ma poi, in lacrime, in mezzo al corridoio del primo piano della Procura dopo un colloquio con Ferrara, dice ai cronisti che non si dimetterà perché deve difendere l’onore suo e di suo figlio.
Ieri, dopo una manciata di giorni passati a riflettere, Toro decide di appendere la toga al chiodo. Dopo 40 anni di servizio. Succede, confidano nei corridoi del Csm, che «l’aria è cambiata». Succede che la procura generale della Cassazione affida al sostituto pg Patrone, un fascicolo che presto inizia a riempirsi di carte provenienti da Roma, Perugia e Firenze. Col passare delle ore si concretizza l’ipotesi di un provvedimento cautelare disciplinare (trasferimento o privazione delle funzioni) per il procuratore aggiunto di Roma che inizia a fare i conti con un doppio processo: quello penale, a Perugia, e quello disciplinare a piazza Indipendenza, sede del Csm. Così, ieri pomeriggio, arrivano le dimissioni e l’estinzione annunciata del processo disciplinare.
Dino Martirano