Orazio Carabini, Il Sole-24 Ore 18/2/2010;, 18 febbraio 2010
LE AUTHORITY SOTTO ASSEDIO: DOPO LA CRISI, LA POLITICA CERCA DI RECUPERARE SPAZIO - I
fallimenti del mercato, da cui sono partite prima la crisi finanziaria e poi la recessione, hanno riportato il pendolo del potere verso la politica. A farne le spese non sono stati solo gli attori del mercato, cioè le banche e le imprese, ma anche le Autorità indipendenti di regolazione, quei "corpi speciali" della burocrazia creati proprio per arginare le interferenze della politica quando si pensava che concorrenza, trasparenza e un mix di sorveglianza e autoregolamentazione potessero assicurare il buon funzionamento dei mercati.
Oggi le authority sono sotto assedio, e non solo in Italia. I governi tendono infatti a riappropriarsi di competenze che avevano ceduto. Il perché è evidente: la politica non tollera di dover pagare, in termini di consenso, colpe che giudica non sue. E poiché sono stati i soldi dei contribuenti a tirar fuori i mercati dai guai in cui si erano cacciati, chi da quei contribuenti è stato eletto alza la voce.
Il caso più evidente è quello della Banca d’Italia. Dopo l’ingresso dell’Italia nell’euro, la politica monetaria si fa a Francoforte, sede della Banca centrale europea. E la vigilanza sul sistema bancario, passati gli anni burrascosi dell’interventismo del governatore Antonio Fazio e completata la ristrutturazione del settore con le grandi fusioni, è tornata a fare quello che deve fare: sorvegliare la "stabilità" degli istituti. Senza preoccuparsi in modo morboso degli assetti proprietari, opportunamente liberalizzati con le nuove norme sulle partecipazioni delle imprese nelle banche e delle banche nelle imprese.
L’arrivo di Mario Draghi, nominato dal precedente governo Berlusconi all’inizio del 2006, ha dato alla Banca d’Italia grande visibilità a livello internazionale. Draghi presiede infatti il Financial stability board, recentemente "istituzionalizzato" come braccio operativo del G-20 nella finanza. molto ascoltato nei consessi sovranazionali ed è uno dei più accreditati candidati alla guida della Bce, quando Jean-Claude Trichet lascerà nel 2011, e del Fondo monetario internazionale dopo Dominique Strauss-Khan, che scade nel novembre 2012.
Da un lato, quindi, la Banca d’Italia conta meno di prima. Dall’altro però è influente e ascoltata, certo più di prima. Fatto sta che la banca centrale è il bersaglio preferito, insieme alla categoria degli economisti, di Giulio Tremonti. Il ministro dell’Economia, che peraltro proprio martedì ha annunciato in modo solenne il sostegno suo e del governo alla candidatura Draghi alla Bce, non ha perso occasione per punzecchiare il governatore in pubblico, come è accaduto al G-7 in Canada o dopo il discorso al Forex. Ma soprattutto ha fatto di tutto per restituire al suo ministero funzioni che prima erano competenza della banca centrale. «Il ruolo dei prefetti nella disciplina dei Tremonti bond e la vigilanza sul massimo scoperto affidata al Tesoro sono gli esempi più vistosi», sintetizza un influente banchiere. I prefetti devono verificare che i finanziamenti delle banche alle imprese non rallentino: è la contropartita "politica" alla ciambella di salvataggio che il governo ha messo a disposizione delle banche con le obbligazioni ibride (utilizzate però solo da quattro istituti). Il Tesoro deve invece controllare che la commissione sul massimo scoperto, abolita per legge, non venga reintrodotta dalle banche sotto altre forme.
A Tremonti non piace che le banche, uscite dalla crisi finanziaria meglio di quelle degli altri paesi, abbiano ripreso a fare profitti ma concedano credito con molta cautela perché temono le insolvenze delle aziende che aumentano nelle fasi recessive. E vuole avere gli strumenti per tenerle sotto pressione.
Draghi, a sua volta, non è stato tenero con le banche: all’assemblea dell’Abi del luglio scorso e alla Giornata del risparmio in ottobre ha usato un tono e un linguaggio inconsuetamente ruvido nel sottolineare i difetti del sistema. Ma più che invitare i banchieri a fare il loro mestiere recuperando quella capacità di selezione delle imprese che è stata abbandonata per far posto ad automatismi non sempre efficaci, non può fare.
Ma il risultato di tutto questo è che la Banca d’Italia, cui non mancano certo competenza e autorevolezza, è di fatto emarginata dal dibattito sulle scelte di politica economica. E non viene coinvolta nelle sedi tecniche in cui le politiche si elaborano. I suoi contributi restano lettera morta, come è successo all’eccellente seminario sul Mezzogiorno organizzato in via Nazionale alla fine di novembre. Il che, considerato il mediocre livello delle strutture tecniche dei ministeri, è un vero spreco.
La Consob vive da due anni in uno stato di quasi paralisi dovuto al rinnovo del suo vertice. Il presidente Lamberto Cardia è infatti riuscito, nella primavera del 2008, a far approvare dal parlamento una leggina bipartisan che ha prolungato di due anni il suo mandato.
Con una commissione spesso divisa, la Consob si muove un po’ a scatti. Segue una linea in generale condivisibile: stringere i bulloni su alcune questioni, come le manipolazioni del mercato, e allentarli su altre, come i costi che gravano sulle società quotate. E teorizza sempre la contendibilità del controllo come miglior stimolo all’efficienza delle imprese. Poi però alle parole non sempre seguono i fatti. Anzi. Durante la crisi è stato proprio Cardia a suggerire al governo e al parlamento di introdurre norme a difesa delle principali società italiane il cui valore di borsa era precipitato a livelli molto bassi, rendendole assai appetibili agli occhi di potenziali scalatori.
Per fare un altro esempio recente, mentre si discuteva dell’introduzione del processo breve che avrebbe di fatto depenalizzato tutti i reati connessi all’attività sui mercati finanziari (tranne l’insider trading e la manipolazione) la Consob non ha proferito verbo. Mentre è difficile prevedere come andrà a finire il confronto sulle regole destinate a disciplinare le operazioni con parti correlate (azionisti, amministratori, società controllate).
Ma ormai tutto ruota intorno alla scadenza del prossimo giugno: chi prenderà il posto di Cardia? I nomi che circolano sono tanti: il direttore generale del Tesoro Vittorio Grilli (che punta anche alla Banca d’Italia insieme a Lorenzo Bini Smaghi, rappresentante italiano nel comitato esecutivo della Bce), l’ex-direttore generale dell’Abi Giuseppe Zadra, il procuratore di Milano Francesco Greco, il presidente della Cassazione Vincenzo Carbone, il presidente del Tar del Lazio Pasquale De Lise. Ciascuno dei quali darebbe all’authority un’impronta diversa.
Per la Consob si è fatto anche il nome di Antonio Catricalà, attuale presidente dell’Antitrust, l’authority che ha sofferto di più gli effetti della crisi. In un mondo che ha improvvisamente rivalutato gli aiuti di stato alle banche e alle imprese industriali, soprattutto quelle automobilistiche, i tutori della concorrenza si sono visti crollare il mondo addosso. A un tratto la concorrenza non è più un valore socialmente avvertito e le regole fondamentali di funzionamento dei mercati vengono piegate ad altri fini. L’Antitrust italiana si è quindi rintanata nella difesa dei consumatori. Che è un altro mestiere.
Catricalà ha provato a giocare una partita coraggiosa sugli intrecci azionari che inquinano il settore bancario e assicurativo, imponendo ad alcuni nomi blasonati come Generali e Intesa Sanpaolo impegni scomodi. Ma su questo fronte è stato lasciato solo dalla Banca d’Italia e dalla Consob, disturbate dallo zelo del neofita con cui l’Antitrust, appena ricevuti dal parlamento i poteri di vigilanza sul settore finanziario, ha cercato di farsi rispettare.
Il suo momento d’oro è coinciso con le "lenzuolate" liberalizzatorie dell’allora ministro Pier Luigi Bersani (primi passi del governo Prodi nel 2006), basate sulle segnalazioni al parlamento dell’Antitrust. Ma quei provvedimenti hanno dovuto fare i conti da subito con il potere delle lobby. Tanto che di essi ormai è rimasto ben poco in vigore.
L’Antitrust di oggi sembra stanca, incapace di rinnovarsi. E, come la Consob, non "produce cultura". A differenza della Banca d’Italia. Forse servirebbe una sferzata all’intero sistema delle authority. Enrico Letta, oggi vicesegretario del Partito democratico e allora sottosegretario alla presidenza del consiglio, ci provò nella passata legislatura: vigilanza finanziaria divisa per finalità e concentrata in tre soggetti (Banca d’Italia, Consob, Antitrust), controllo sul settore postale all’authority delle comunicazioni, servizi idrici all’authority dell’Energia, nuova authority per i trasporti, collegi e criteri di nomina (bipartisan) standardizzati. Il progetto incontrò molte resistenze e non andò in porto, anche per la fine anticipata della legislatura. Adesso Letta ci riprova, con un volume di Giulio Napolitano e Andrea Zoppini sulle authority al tempo della crisi che rilancia il progetto di riforma (si veda Il Sole 24 Ore del 21 gennaio). «Dobbiamo evitare – spiega Letta – il ritorno di logiche anti-mercato con il pretesto di debellare il "mercatismo"».
Le due principali authority di settore, quella dell’Energia e quella delle Comunicazioni, vivono in condizioni di malessere per motivi diversi. La prima, presieduta da Alessandro Ortis, è governata da anni da un collegio di sole due persone: il presidente e Tullio Fanelli che scadono nel prossimo novembre. La nomina degli altri tre è attesa dal 2004 ma non è mai arrivata. L’authority è stata ripetutamente presa di mira dal governo e dal parlamento che cercano di recuperare competenze. Ortis paga inoltre una linea ostile all’Eni, il cui vertice è solidamente ancorato all’attuale maggioranza. Il presidente dell’authority ha infatti sempre contestato il diverso trattamento che è stato riservato al settore del gas rispetto all’elettricità. Mentre l’Enel ha dovuto cedere il 50% della capacità produttiva e la rete di trasmissione è passata a Terna, una società terza, l’Eni deve scendere al 61% del mercato del gas nel 2010 (ma nessuno ha ancora stabilito che cosa succederà dopo) mentre l’obbligo a cedere la rete di trasporto (Snam rete gas), previsto dalla legge di liberalizzazione del 2000, non è mai stato attuato.
Il monopolio dell’Eni è giustificato dall’amministratore delegato Paolo Scaroni con la necessità di non perdere potere contrattuale nei confronti dei fornitori strategici come la Russia e la Libia. Il monopolio dell’Eni è invece contrastato da Ortis secondo il quale da una Snam rete gas "terza" il consumatore avrebbe tutto da guadagnare.
L’Authority per le comunicazioni ha un problema opposto: il suo collegio (otto persone scelte con il bilancino dai partiti) è spesso di ostacolo alla rapidità delle decisioni. In compenso non è mai sguarnito. L’Agcom, presieduta da Corrado Calabrò, è accusata da qualcuno di essere sdraiata sulle posizioni dell’ex-monopolista (Telecom Italia). «L’aumento del canone considerato come una remunerazione della manutenzione della rete d’accesso ne è la prova più evidente», dice un esperto del settore. «Se Vodafone fa più profitti in Italia che nelle altre decine di paesi in cui opera vuol dire che la politica della concorrenza funziona o che, quanto meno si è passati dal monopolio all’oligopolio », ribatte un altro esperto.
L’Authority ha molto potere in due settori delicati quali la telefonia e la televisione. Da cui la politica fatica ad accettare di essere tenuta alla larga. Ma l’Agcom, come l’authority dell’Energia, è tutelata dalle direttive europee che ne pretendono l’indipendenza dagli operatori e dalla politica.
A questo proposito ha fatto scalpore la norma introdotta con la Legge finanziaria per il 2010 che prevede un sussidio delle authority "ricche" (Energia, Comunicazioni, Lavori pubblici) a quelle che non riescono ad autosostenersi (Antitrust, Privacy, Garanzia sugli scioperi). Il progetto iniziale, che i maligni attribuiscono a Catricalà, prevedeva la creazione di un fondo unico in cui far confluire le entrate delle varie authority e redistribuirle secondo le rispettive esigenze. Alla fine il disegno è saltato ed è passato solo il contributo di solidarietà. Con un ordine del giorno di Benedetto Della Vedova (Pdl) che impegna il governo a rivedere la materia.
«Per quest’anno può andar bene così – commenta Calabrò ”, con una specie di circuito della solidarietà tra le authority. Ma a regime le modalità di finanziamento di ciascuna devono essere chiare. Le imprese delle telecomunicazioni, quelle dell’energia o dell’edilizia non possono sussidiare altri settori. Questa è un’ombra che si protende sull’indipendenza delle authority, e può essere vista come l’ombra della mano del governo. Se questo sistema diventasse permanente andrebbe contro il diritto comunitario».