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 2010  febbraio 17 Mercoledì calendario

TANGENTOPOLI, IL SISTEMA CHE NON MUORE

Per celebrare degnamente il diciottesimo compleanno di Mani pulite, Milano non ha badato a spese. Ci ha stupito con gli effetti speciali. Ha ricreato il clima del 1992. Un consigliere comunale, Milko Pennisi, si è fatto beccare con la mazzetta addosso: come Mario Chiesa, imputato numero 1 di Tangentopoli. Gli operatori immobiliari che hanno avuto a che fare con lui prima dell’arresto ora sono lì che pensano che cosa convenga fare: come gli imprenditori dopo i primi arresti di Mani pulite, che dopo qualche settimana decisero che conveniva andare dai magistrati a denunciare la concussione, prima di essere accusati di corruzione. I politici si dissociano dalle ”mele marce”, pur sostenendo che si tratti di casi isolati, ”una volpe nel pollaio”, dice Silvio Berlusconi: come Bettino Craxi che diede del ”mar iuolo” a Mario Chiesa, ma poi fu travolto insieme a tutto il pollaio. E ci fosse solo Pennisi. Invece c’è anche l’assessore regionale Pier Gianni Prosperini detto Obelix, in galera perché usava i soldi della Regione per fare campagna elettorale (la sua e quella di Ignazio La Russa). Appena uscita di cella Lady Abelli, ovvero Rosanna Gariboldi, assessore provinciale e moglie del deputato Pdl Giancarlo Abelli: aveva ricevuto più di un milione di euro su un conto di Montecarlo dal re delle bonifiche Giuseppe Grossi. E poi le cliniche, orgoglio del sistema sanitario del presidente Roberto Formigoni: non ce n’è una a Milano che non sia stata beccata con le carte false per ottenere rimborsi gonfiati. L’esorcismo ripetuto è: ma oggi la situazione è diversa da Tangentopoli. Certo, il sistema odierno è un altro. però poi tanto differente, nell’essenziale, da quello scoperto da Mani pulite? IMPUTATO N.1 Era il 17 febbraio 1992. Arrestato in flagrante, mentre incassava da un imprenditore delle pulizie una tangente di 7 milioni, Mario Chiesa, socialista, presidente del Pio Albergo Trivulzio con l’ambizione di diventare, chissà, sindaco di Milano. La notizia non fece clamore. Il magistrato che incastra Chiesa è un ancora sconosciuto Antonio Di Pietro, deciso a smascherare il sistema che aveva già conosciuto durante inchieste precedenti. Blocca i conti di Chiesa, sequestra cassette di sicurezza, libretti al portatore, azioni, titoli. Una dozzina di miliardi. «Avvocato, riferisca al suo cliente che l’acqua minerale è finita», dice a Nerio Diodà, il difensore del manager socialista. Chiesa capisce al volo: il pm ha scoperto anche i suoi conti svizzeri, «Fiuggi» e «Le vissima». Il caso potrebbe essere chiuso in poche settimane, con la richiesta di rinvio a giudizio per la piccola tangente ritirata quel fatidico 17 febbraio. Ma Di Pietro finge di dimenticare le scadenze procedurali e non deposita gli atti nei termini previsti per la celebrazione del processo per direttissima. Dopo cinque settimane a San Vittore, il ”mar iuolo” comincia a cedere. Il 23 marzo 1992 comincia a raccontare le tangenti: non un’eccezione, ma un sistema articolato e scientifico, funzionante in ogni assessorato, in ogni azienda pubblica, in ogni ramo della pubblica amministrazione. Dal 6 aprile cominciano a fioccare gli avvisi di garanzia a politici e amministratori. Il 22 aprile scattano i primi arresti: finiscono a San Vittore otto imprenditori che avevano vinto appalti grazie a Chiesa. Avevano lavorato per il Trivulzio, ma anche per gli ospedali milanesi, per la metropolitana, per il terzo anello dello stadio di San Siro. Così, quando il 24 aprile escono dal carcere, Di Pietro ha molte nuove informazioni sul sistema delle tangenti. Gli sviluppi dell’inchiesta producono un cortocircuito: Chiesa parla, ben sapendo che hanno cominciato a parlare alcuni degli imprenditori che gli hanno versato tangenti. E altri imprenditori, sapendo che Chiesa sta confessando, si presentano in Procura per raccontare nuove tangenti. Inizia così l’«ef fetto domino» che alimenterà le indagini per molti mesi. Confessione chiama confessione, corrotti e corruttori fanno quasi a gara per arrivare per primi davanti a Di Pietro. Una reazione a catena che moltiplica i reati scoperti e le persone coinvolte in progressione geometrica. Verbale dopo verbale, si disegna la mappa del sistema delle mazzette. I giornali lo chiamano ormai Tangentopoli, un neologismo coniato dal cronista di ”R e p u bbl i c a ” Piero Colaprico. L’espressione Mani pulite nasce, invece, nell’ufficio di Di Pietro: dalle iniziali M e P (Mike e Papa) nell’alfa beto internazionale usato anche dai militari con cui comunicano in codice via radio il pm (Papa) e il capitano Roberto Zuliani (Mike) durante le prime operazioni, dall’arresto di Chiesa in poi. Da fine aprile non passa più giorno senza almeno un arresto o un avviso di garanzia. Il 29 aprile tocca a Epifanio Li Calzi, successore di Chiesa come direttore tecnico dell’ospedale Sacco. il primo politico a essere arrestato (Chiesa e Matteo Carriera, che lo avevano preceduto a San Vittore, erano manager pubblici). Ed è del Pds: ex sindaco comunista di un paese dell’hinterland, ex consigliere comunale del Pci, ex assessore a Milano. Poche ore dopo lo raggiunge un sindacalista: Sergio Eolo Soave, pure lui pidiessino, ex vicepresidente della Lega regionale delle cooperative. Nei mesi seguenti, sarà coinvolto tutto il gruppo dirigente dell’ex Pci milanese. Eppure questo non ha impedito la diffusione della favola dei comunisti salvati da Mani pulite. Il sistema di Tangentopoli era scientifico. Le imprese si accordavano per predeterminare gli esiti delle gare evitando i noiosi impicci del libero mercato. Un rappresentante dell’azienda capofila per ogni appalto si premurava di raccogliere le somme «dovute» da ciascuna società della cordata vincitrice. Poi regolava le pendenze con i diversi partiti, oppure consegnava la tangente al «cassiere unico» delle forze politiche, il quale poi divideva il bottino con i «colleghi». Nella politica ufficiale, quella visibile, c’erano maggioranze e opposizioni, alleati e fieri avversari. Ma dietro le quinte tutti erano soci in affari. Il sistema del cassiere unico, che raccoglie i soldi e poi li smista tra i partiti – Dc, Pci, Psi e laici minori – è la smentita più plateale che le tangenti fossero necessarie per «finanziare la democrazia» contro «l’avanzata dei comunisti»: era il democristiano o il socialista a portare i soldi al comunista, o viceversa. IL SISTEMONE Il 1 maggio 1992, partono gli avvisi di garanzia per i primi due parlamentari: gli ex sindaci socialisti Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri. Poi toccherà ai grandi costruttori Angelo Simontacchi della Torno, Mario Lodigiani, Roberto Schellino della Cogefar Impresit (gruppo Fiat). Con Alberto Mario Zamorani, arrestato l’8 giugno, Mani pulite esce dai confini milanesi e punta decisamente a Roma anche sul fronte imprenditoriale alla scoperta del sistema nazionale delle tangenti: il «Sistemone», come lo chiama sul settimanale ”Il Mondo”, Giuseppe Sarcina. Quello dei grandi appalti Fs, Italstat, Enel, Eni... Quando esce da San Vittore, venerdì 7 agosto, Zamorani prevede: «Questi magistrati sanno cento volte di più di quanto immaginiate. Se continuano così, nome dopo nome, fatto dopo fatto, arresto dopo arresto, in autunno gli arrestati potrebbero essere già mille». Intanto in molte procure italiane molti altri magistrati avevano aperto indagini sulla corruzione: Mani pulite contagia tutta l’Italia. I magistrati del pool, Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo, coordinati da Gerardo D’Ambrosio e dal procuratore Francesco Saverio Borrelli, diventano eroi nazionali. L’indagine prosegue con l’arresto di Salvatore Ligresti, il re delmattone, uno dei padroni di Milano. Poi coinvolge gli alti manager della Fiat. Ma il 1992 di Mani pulite si chiude con l’evento più atteso dell’anno: martedì 15 dicembre, alle ore 11,30, il capitano dei carabinieri Paolo La Forgia raggiunge da Milano l’hotel Raphael di Roma e consegna a Bettino Craxi le diciotto pagine del suo primo avviso di garanzia. La data non è stata scelta a caso: il pool ha lasciato passare l’appuntamento elettorale del 13 dicembre (si è votato in 55 comuni e in una provincia). E questa, per l’allora leader missino Gianfranco Fini, «è la prova che la magistratura milanese non fa politica, checché ne dica Craxi». I capi d’imputazione contestati al segretario socialista sono 40: 17 per concorso in corruzione, 3 per ricettazione, 20 per illecito finanziamento dei partiti. Tangenti per un totale di oltre 37 miliardi. Alla fine, Mani pulite coinvolse a Milano 4.500 persone, chiese 3.200 rinvii a giudizio, ottenne 1.300 tra condanne e patteggiamenti. Risultati statisticamente migliori della media processuale italiana. Per il resto, a vincere furono la prescrizione e la depenalizzazione dei reati. Poi partì la delegittimazione dei magistrati, la campagna martellante per far perdere perfino la memoria di quell’inchiesta contro la corruzione, le bugie ripetute sul ”g iustizialismo”, sui giudici ”assassini” responsabili dei suicidi dei loro indagati. E sulle ”toghe rosse”, sulle ”finalità politiche”dell’i n ch i e s t a . Ridotta a ”persecuzione giudiziaria”: ma subita da politici che, a dir la verità, per la gran parte si precipitavano a confessare. ”Qualcuno”, racconta Davigo, ”cominciava già al citofono”.