Autori vari, La Stampa 17/2/2010, pp 12-13., 17 febbraio 2010
LA DIPLOMAZIA DELLA BIRRA E DEL COUS COUS (+5
pezzetti) -
«Vede questa lista di interventi? La lamentela più grave riguarda gli schiamazzi serali, quelli che arrivano dalle birrerie o dai locali di tendenza. Vogliamo confrontarla con quella di dieci anni fa? Allora la gente, esasperata dallo spaccio, sfilava per strada di notte e i giornali titolavano ”Tori- no: voglia di spranga contro l’immigrato”».
La storia della scommessa vinta da San Salvario (il quartiere più multietnico della città a due passi da Porta Nuova) è tutta chiusa nella cartellina gialla del comando dei vigili urbani: da zona calda, ad alto tasso di immigrati clandestini (oggi sono il 14 per cento degli abitanti) al quartiere più effervescente e culturalmente vivace della città. « vero, ci sono voluti dieci anni, una grande figura sociale come il parroco Don Gallo, e soprattutto un’amministrazione che ha fatto della mixitè il punto di forza dell’area - spiega Carlo Olmo, docente di Storia dell’Architettura contemporanea - ma alla fine il quartiere ha saputo trasformare i problemi in opportunità».
Olmo indica in lontananza gli scavi del metrò, la trincea che separa San Salvario dall’appena rinnovata stazione di Porta Nuova e aggiunge: «Opere come questa, insieme con un fittissimo calendario di iniziative culturali, e un tessuto commerciale rivitalizzato: ecco il processo multiplo che ha saputo trasformare la diversità di San Salvario, con i suoi tanti stranieri in risorsa».
Una risorsa che in qualche caso, proprio in questa zona incastonata fra il Parco del Valentino e la stazione, è virata in status symbol. Si pensi soltanto a quanto accadde l’estate scorsa, all’asilo Bay, nel cuore di San Salvario, la scuola più multietnica della città: negli Anni Novanta era «l’asilo dei neri», quello dove nessun genitore italiano avrebbe voluto iscrivere il proprio bambino. Nel luglio scorso quelle stesse classi ad alto tasso di occhi a mandorla e pelle nera (il 60 per cento dei bambini è straniero) sono diventate meta ambitissima: i genitori dei bambini italiani capirono l’importanza del confronto fra culture diverse.
E dire che sino a qualche anno fa in quello che fu battezzato il «crocevia dello spaccio», fra via Berthollet e via Nizza, la gente arrivava a svendere gli alloggi e la sera, per strada, c’era il coprifuoco: oggi, invece, laddove resiste lo spaccio, molto più contenuto di allora i controlli danno buoni frutti: «Grazie ad un’intensa collaborazione con gli abitanti e la procura - spiega il comandante provinciale dei Carabinieri, colonnello Antonio De Vita - è stato possibile provare l’attività di spaccio attraverso filmati che hanno garantito la condanna dei pusher». A San Salvario i carabinieri hanno da tre anni una nuova stazione. E anche i vigili urbani hanno una sede con un’ottantina di agenti di cui una buona metà è a disposizione della gente. Gente come Laura Pagano, 44 anni, architetto che dieci anni fa, per la disperazione, voleva vendere il suo alloggio di 80 metri quadri: «La sera avevo paura a rincasare, i pusher nascondevano gli ovuli nella nostra buca delle lettere». Oggi al posto del phone center che confinava con il portone di Laura c’è una bottega di birra artigianale, e la sera un viavai di fighetti. «Altra vita - commenta lei - e l’alloggio ha raddoppiato di valore». Aggiunge, orgoglioso il presidente di quartiere Mario Cornelio Levi - ora le signore torinesi hanno imparato dai loro vicini di casa a cucinare cous cous e banane verdi fritte. La diversità è diventata punto d’incontro e, perché no, tendenza: quando mangi il cibo di un altro è perché ti fidi».
D’accordo con lui è Don Gallo, il parroco-simbolo del quartiere che nel 2002 aprì il piccolo teatro Baretti al fianco della sua parrocchia: «E’ servito parecchio - racconta - come servono tuttora gli oratori e le gallerie d’arte: la cultura e il gioco, come sempre, sono collanti meravigliosi».
Emanuela Minucci
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Parigi. La paura del comunitarismo, delle bande che si affrontano agitando le incendiarie bandiere della etnicità a Parigi ha un numero: 19. Non è una della remote periferia gonfie di veleni ma un arrondissement parte viva della capitale. Al numero 49 di rue Petit c’è la sinagoga frequentata da molti ultraortodossi, ma la comunità di magrebini e di neri africani (e musulmani) è fitta. Le due comunità vivono mescolate ma non integrate dalla uguaglianza e dalla fraternità predicate dalla République.
Al centro del quartiere c’è il parco delle Buttes-Chaumont, uno dei più grandi della capitale, colline verdi lago e sentieri creati per il piacere agreste dei sudditi di Napoleone III, paradiso urbano creato forse per far dimenticare che su uno dei rilievi sorgeva la forca. La sera è una zona proibita. Perché fa da sfondo agli scontri tra le bande dei ragazzi ebrei e quelli musulmani. Kefiah e cappucci contro kippah. Lampeggiano spranghe e slogan sinistri: cacciamo questi intrusi, il quartiere è nostro. E’ una lotta per il controllo del territorio che secondo molti ha ragioni più sociali che etniche, magrebini poveri contro ebrei ricchi. Forse, ma il risultato non cambia.
Un altro nunero per una storia opposta, di integrazione riuscita, questa volta il 13. E’ la Chinatown della capitale, la massima concentrazione dei 700 mila cinesi che vivono in Francia. Fino a poco tempo fa si distinguevano per la discrezione. Un’integrazione sempre in bilico. Ora, anche per controbattere una serie di luoghi comuni che li vuole infiltrati dalla mafia, hanno iniziato ad avanzare verso qualcosa di nuovo. E si sono guadagnati un encomio del presidente: «Fate parte delle forze vive della nazione». Félix Wue, «francese e fiero di esserlo», si è presentato alle comunali. Non è stato eletto ma il suo esempio ha smosso le acque, sbizzarito tentazioni e progetti.
Domenico Quirico
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Londra. Nel 2003, quando Monica Ali raccontava nel romanzo «Brick Lane» l’epopea d’una famiglia del Bangladesh nella giungla londinese, l’Italia scopriva i suoi immigrati. La City, invece, ci era talmente abituata da ritrovarli normalmente anche nel mondo letterario. Brick Lane è la strada della comunità sud-asiatica nel quartiere multietnico di Tower Hamlets, dove quattro studenti elementari su cinque non sono di madrelingua inglese. L’epiteto di Bangla-Town però, lungi dal segregarne i confini, marcando le differenze con gli altri nuovi inquilini dell’East End, l’ha trasformata in un polo d’attrazione per amanti del pollo al curry, creativi iscritti alla London Metropolitan University, artisti come Gilbert&George.
Non tutte le ciambelle riescono col buco, d’accordo. Ma se Londra cresce di 50 mila persone l’anno, in buona parte stranieri, e gli episodi di guerriglia urbana non sono poi così frequenti, una ricetta c’è. E non dipende dal milione di telecamere in funzione antiterrorismo, perchè molti degli estremisti islamici tenuti sotto sorveglianza da Scotland Yard hanno passaporto britannico.
La Gran Bretagna, se ospita 6,5 milioni d’immigrati, conosce bene le tensioni razziali. Non è passato certo un secolo dagli scontri interetnici del 1981 nelle zone periferiche Brixton e a Toxteth. Ma Londra è un’altra cosa, la prova che la chiave della pacifica convivenza, se non dell’integrazione, è economica: dove c’è mercato c’è posto per il diritto degli indù al funerale tradizionale con tanto di pira, riconosciuto la settimana scorsa da un tribunale, e per l’ospedale Chelsea and Westminster con i suoi neonati figli di mamme provenienti da settanta Paesi. Dove l’occupazione stagna, salta qualsiasi patto sociale. Chi non ricorda gli scioperi dello scorso anno in Lincolnshire contro gli operai italiani, rei di «rubare» il lavoro ai locali?
Francesca Paci
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Berlino. «Il multiculturalismo è fallito». La frase risale al 2004 e ha sollevato un dibattito la cui eco non si è ancora spenta. A pronunciarla, Heinz Buschkowsky, un politico locale che del tema è diventato uno degli esperti più ascoltati. Non a caso: il socialdemocratico Buschkowsky è il borgomastro di Neukölln, la circoscrizione di Berlino che viene più spesso indicata come esempio di fallita integrazione, in una città in cui il «multikulti» è all’ordine del giorno.
Nella capitale tedesca una persona su 4 ha una storia di emigrazione alle spalle e in alcuni quartieri, come Mitte, la quota di immigrati raggiunge il 44%. In una città in cui fino all’89 una parte - quella orientale - conosceva a malapena l’immigrazione, l’integrazione si è sviluppata in modo differenziato. C’è l’esempio di quartieri chic come Prenzlauer Berg, che hanno finito con l’attirare gli immigrati col miglior grado d’istruzione. E ci sono quelli che i media chiamano «Problemkieze», quartieri problematici, aree come quella intorno a Kottbusser Tor a Kreuzberg, punto di ritrovo di spacciatori, o come Wedding, in cui una scuola con l’88% di iscritti di origini straniere ha creato una classe riservata ai ragazzi che superano un test di tedesco. Oppure Neukölln, microcosmo trapiantato nel Sud della capitale: dei 300 mila abitanti, il 38% è arrivato qui da 163 Paesi. E non sempre si è integrato come si sperava, al punto che Buschkowsky mette in guardia sulle «società parallele». I motivi: criminalità, disoccupazione che supera il 23%, elevato tasso di giovani che lasciano la scuola.
Anche nei «quartieri problematici», però, qualcosa si muove. L’esempio arriva da Neukölln, dove sorge la scuola Rütli: nel 2006 simbolo dell’integrazione fallita, dopo che gli insegnanti avevano lamentato episodi quasi quotidiani di aggressioni. Oggi è un campus ipertecnologico indicato come modello.
Alessandro Alviani
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New York. Se Brooklyn è il cuore pulsante della multietnica metropoli di New York, il quartiere di Bensonhurst riassume i cambiamenti di popolazione avvenuti nell’ultimo quarto di secolo, perché i discendenti dei fondatori di inizio 800, italiani ed ebrei dell’Est europeo, hanno lasciato il posto ai nuovi immigrati, dall’Estremo Oriente e dalla Russia.
A fotografare il cambio della guardia è quanto avviene sulla 18° Avenue, nota come Boulevard Cristoforo Colombo, dove le attività commerciali degli italo-americani cedono il passo a quelle dei sino-americani in maniera analoga a quanto avvenuto nella Little Italy a Manhattan. Ma il cambio di popolazione non ha portato ad un aumento della criminalità: a Bensonhurst c’è un tasso di violenze sessuali, rapine e furti di auto inferiore alla media nazionale, mentre il reddito medio famigliare di 50 mila dollari svela l’avvenuta trasformazione della popolazione, che da operaia è divenuta ceto medio. Basta recarsi all’entrata di una delle scuole per accorgersi come il dilagare di giovani asiatici in istituti, dove fino agli Anni 70 dominavano i bianchi, non ha causato tensioni. Per capire perché la trasformazione di Bensonhurst non si è accompagnata a un aumento di violenza bisogna tener presente come opera la polizia, applicando alla lettera le norme che puniscono ogni infrazione. Come avvenuto su una metropolitana dove un ragazzo è stato multato per aver messo i piedi sul sedile che aveva davanti. «ostruendo il posto agli altri passeggeri», sebbene nella carrozza non vi fosse nessun altro. I giovani sanno che a casa ogni famiglia è libera di conservare la propria identità, ma che in strada le differenze scompaiono perché vige il regolamento della polizia di New York.
Maurizio Molinari
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LE REGOLE PER USCIRE DAI GHETTI -
Ha chiuso in un verso di Ivano Fossati la trasformazione della zona di Londra ad alta densità di stranieri per eccellenza, Brick Lane, e ci ha fatto il titolo di un libro: «Sul filo della frontiera: politiche urbane in un quartiere multietnico». Paola Briata, insegna «Gestione dei progetti di sviluppo territoriale» al Politecnico di Milano, e di strade a rischio ne ha viste molte. Per riqualificarle ammette di non avere la ricetta ideale, ma dice che se si seguissero poche linee guida, anche in Italia il quartiere multietnico che «funziona e non spaventa» non sarebbe un miraggio.
PARIT BIPARTISAN
«Prima regola: lo sviluppo di una politica urbana che coniughi azioni sociali, di riqualificazione economica e delle strutture. E che risolva problemi comuni: individuata una questione, la soluzione dev’essere rivolta, in scala generale, a tutta la popolazione e non unicamente alle comunità etniche: pensare, ad esempio, che solo gli immigrati e non gli autoctoni abbiano difficoltà economiche è una trappola micidiale che provoca la peggiore delle battaglie, quella tra poveri. Così si distrugge l’integrazione alla base».
UGUAGLIANZA DEI DEBOLI
«Il primo sostegno delle amministrazioni locali e delle associazioni dev’essere dato alle persone più svantaggiate. L’aiuto, però, non può riguardare singole etnie: occorre che la fascia debole da sostenere abbracci l’intera comunità di immigrati. L’attenzione va puntata subito sui bambini, poi sulle donne che hanno molte difficoltà, a partire da quella linguistica. importante aiutarle a capire che alcuni loro talenti possono diventare una professione, e che i titoli di studio possono essere usati anche in Italia, per introdurle nel mondo del lavoro e favorire l’integrazione».
RIQUALIFICAZIONE E PREZZI
« il nodo cruciale di ogni amministrazione. Riassestare un quartiere implica molto spesso, dopo la riqualifica, l’aumento dei prezzi degli appartamenti. Il rischio è che stranieri e fasce deboli locali non possano più permettersi di pagare l’affitto o l’acquisto. Per questo è importante che prima dell’inizio dei lavori di ristrutturazione il Comune, la Regione, o lo Stato comprino un numero di alloggi così da garantire, nell’ottica di un’edilizia popolare, affitti e vendite a prezzo contenuto».
VISIBILIT ETNICA
«Kebab, ristoranti cinesi, supermarket indiani, bazar senegalesi: l’eccessiva visibilità della presenza straniera è a rischio boomerang. La possibilità che la popolazione mal sopporti le comunità immigrate aumenta con l’occupazione del suolo. Le amministrazioni dovrebbero limitare - senza adottare, però, misure drastiche - il numero di licenze fino a quando l’integrazione nel quartiere non raggiungerà livelli accettabili. Oltretutto, se le attività commerciali non sono ben distribuite, il rischio è la nascita di quartieri ghetto».
Elena Lisa