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 2010  febbraio 16 Martedì calendario

QUANDO LO STATO NON PAGA PI CHE FARE CON UN DEBITO IN DEFAULT - ROMA

Crac, default, bancarotta. In una parola, il terremoto: lo Stato dichiara che non onorerà i suoi debiti ed ecco titoli azzerati, creditori discriminati sulla base del loro potere contrattuale, banche e assicurazioni che fanno il botto, imprenditori e fornitori che rimangono con le fatture in mano, un governo che può spendere solo quello che incassa con le tasse. Uno scenario tanto apocalittico da non essere più verosimile. Infatti, non si è mai verificato.

Almeno in Occidente. E in tempi riconoscibili, lasciando perdere, cioè, la Spagna del ’600. L’ultima volta, è stato nella Russia del 1917. Nell’Europa di oggi, non converrebbe a nessuno, tanto meno agli altri paesi dell’area euro che, in caso di default greco o portoghese, finirebbero per pagare indirettamente una parte del conto. Soprattutto, non c’è alcun bisogno di dichiarare bancarotta: come succede ai grandi debitori, che trovano quasi sempre una banca compiacente, il debito impagabile si ristruttura, allungandone tempi e scadenze. O, come possono fare solo gli Stati, si svuota con l’inflazione.

Germaniae Austria sono uscite in questo modo dalla morsa dei debiti nel primo dopoguerra. L’Italia, nel secondo.

«In linea di principio - dice Marco Pagano - lo Stato sovrano può semplicemente dichiarare che non ripagherà, in tutto o in parte, il capitale e/o gli interessi dovuti sul debito». A questo punto, spiega Pagano, che insegna Economia all’Università di Napoli, «troverà molto difficile o del tutto impossibile contrarre nuovi debiti, almeno per un certo periodo di tempo, per l’ovvio timore che possa rifiutarsi di restituire anche i nuovi prestiti. Perciò la spesa corrente deve essere finanziata con il gettito delle imposte e/o con l’emissione di moneta.

Nella misura in cui queste due fonti di finanziamento lo consentono, lo Stato può rimborsare gli interessi sul debito e quote del capitale sul debito pre-esistente. Lo stesso dicasi per il pagamento dei fornitori dello Stato, dei pubblici dipendenti, dei trasferimenti alle famiglie (come le pensioni)». Anche banche e assicurazioni sarebbero colpite: «Quelle che hanno investito in titoli del debito pubblico di uno Stato che si dichiara insolvente ovviamente accusano delle perdite, e quindi (qualora non abbiano fatto degli adeguati accantonamenti per fronteggiare tali perdite) possono a loro volta divenire insolventi». Lo sconquasso argentino, però, con tanto di blocco dei conti correnti in banca, è un’altra storia: «Sono misure - dice Pagano - mirate ad impedire la fuga dei capitali, ma in vista, ad esempio, di un’imposta sui patrimoni, pensata proprio per evitare l’insolvenza. Di per sé, misure di questo genere non sono causate dall’insolvenza da parte dello Stato, né necessariamente associate ad essa».

Storicamente, comunque, anziché dichiararsi insolventi e scatenare questo terremoto, gli Stati hanno preferito la strada della superinflazione, sgonfiando per questa via il valore del debito accumulato.

Nell’area euro, però, nessuno Stato può emettere moneta, né contrastare gli effetti dell’inflazione con un deprezzamento della sua valuta. Una iperinflazione si tradurrebbe solo in una drammatica perdita di competitività della singola economia. Più credibile che uno Stato in difficoltà persegua una terza strada indicata da Pagano, quella della ristrutturazione del debito.

«Per esempio, può proporre l’alternativa tra una decurtazione del valore del capitale e/o degli interessi e la conversione del debito pre-esistente in debito con scadenze più lunghe e tassi di interesse diversi da quelli originari. C’è anche da notare che non è detto che lo Stato che dichiara insolvenza tratti tutti i suoi creditori nello stesso modo, cioè offra condizioni uguali a tutti nella ristrutturazione del debito». Cosa succederebbe in questo caso? Può saltare il banco dell’euro? Per ora, pochi economisti credono ad un collasso della moneta comune, ma nessuno può escludere che, alla lunga, sotto la pressione dei mercati, si arrivi ad una frantumazione dell’eurozona. Sul piano tecnico del debito sarebbe un colpo devastante? A sorpresa, no. Almeno, non in prima battuta. Così sostiene una nota di Barclays Capital. Se, a parte Francia e Germania, anche Italia o Spagna lasciassero l’euro e ridenominassero il loro debito in «nuove lire» o «nuevas pesetas», questo, da solo, non costituirebbe un «evento creditizio» sufficiente a far scattare il pagamento dei «credit default swaps», i titoli che rappresentano assicurazioni sul debito di paesi o imprese. La sola ridenominazione del debito in altra valuta nonè un «evento creditizio» perché l’Italia fa parte del G7 e la Spagna (come l’Austria) ha un rating AAA da almeno una delle grandi agenzie di rating.

E’ uno scudo che non vale per Grecia, Portogallo e Irlanda, che non hanno un rating alto.

E potrebbe non reggere anche per Italia e Spagna, se, l’uscita dall’euro determinasse un tracollo dell’economia.