LUCIO CARACCIOLO, la Repubblica 16/2/2010, 16 febbraio 2010
L’ITALIA E IL COLONNELLO - «IL SOLITO
Gheddafi». Viene facile attribuire al temperamento eccentrico del leader libico la sua ultima sfida agli europei, ennesima puntata di una telenovela tragicomica. Una telenovela iniziata nel luglio 2008 con la detenzione a Ginevra del rampollo più giovane di Gheddafi, Hannibal, accusato di aver percosso due domestici in una delle svariate suites dell’Hotel Président Wilson dov’era ospite con la moglie incinta di nove mesi. Subito dopo, la sorella di Hannibal, Aisha, convocò una conferenza stampa nella lobby del cinque stelle per avvertire: «Occhio per occhio, dente per dente». E così fu.
A cominciare dall’arresto per rappresaglia di due cittadini svizzeri, oggetto di ripetuti processi-farsa a Tripoli e tuttora rifugiati nell’ambasciata della Confederazione. Da allora, il braccio di ferro elvetico-libico non ha avuto pause, fra minacce e ritorsioni reciproche. Per mettere fine a una disputa in origine piuttosto futile ma che ormai toccava interessi corposi del suo paese, a partire dalle importazioni di petrolio libico, nell’agosto 2009 l’allora presidente elvetico Hans-Rudolf Merz si umiliò, scusandosi formalmente con Gheddafi. Inutilmente.
Nella sete di risarcimento per il trattamento subìto dal figlio - il quale peraltro nel dicembre scorso ha confermato la sua fama malmenando la moglie in un albergo di Londra - lo scorso anno Gheddafi aveva tentato di sottoporre all’Assemblea Generale dell’Onu un progetto di spartizione della Svizzera. Lo smembramento avrebbe dovuto obbedire a criteri linguistici: i cantoni francofoni alla Francia, quelli germanofoni alla Germania e il Ticino a noi. Sul destino dei cantoni misti e dei reto-romanci - quarto gruppo linguistico della Confederazione Elvetica - Gheddafi non riteneva di entrare. Naturalmente l’idea fu respinta in quanto irricevibile, giacché la Carta dell’Onu esclude che uno Stato membro possa abolirne un altro. Anche se, secondo la «Guida della rivoluzione», la Svizzera è «una mafia mondiale, non uno Stato».
Negli ultimi giorni i duellanti hanno esteso il campo della tenzone, fino a farne un caso europeo. Prima le autorità elvetiche hanno stabilito che 188 alti esponenti libici, Gheddafi compreso, non hanno più accesso al territorio nazionale. Subito dopo, Tripoli ha risposto chiudendo le frontiere ai cittadini europei, britannici esclusi.
Il provvedimento riguarda in particolare i paesi dell’area Schengen, cui appartiene anche la Svizzera. Una lettura folcloristica di questa crisi non ne coglierebbe la gravità e il senso profondo. Gheddafi non è affatto pazzo, anche se sembra voglia convincerci di esserlo. Dal 1969 è il leader di una rivoluzione che, dopo lunghi anni di sanzioni americane e Onu, è stata riammessa dall’Occidente nel novero delle sovranità rispettabili. Rispetto che deriva soprattutto dal potenziale energetico della Libia, dalla sua collocazione strategica e dal suo contributo alla lotta contro il qaidismo e l’estremismo islamico. Per noi italiani, a questi motivi se ne aggiunge un altro: vorremmo che Tripoli bloccasse sulle sue coste i disperati che dal cuore del continente africano premono verso il Canale di Sicilia. E siamo disposti a chiudere entrambi gli occhi sui metodi impiegati dalla polizia libica per frenare questo flusso - quando non lo alimenta. Su questa base poggia il recente trattato italo-libico di amicizia, partenariato e cooperazione con cui Berlusconi si illudeva di chiudere il contenzioso aperto dalla nostra occupazione coloniale della Libia. «Meno immigrati clandestinie più petrolio», garantiva il premier. Senza contare gli investimenti di fondi sovrani libici in industrie e banche italiane.
Dei trattati a Gheddafi importa poco. Certamente non li considera un vincolo politico. Ad americani, britannici, italiani ed altri occidentali pare sfuggire che la Libia non è uno Stato come un altro, ma un regime rivoluzionario alimentato da una ideologia egualitaria di impronta beduina e da una geopolitica che sia nella versione panaraba che in quella panafricana verte sul più rigoroso antisionismo e sulla retorica antimperialista. Contrariamente a quanto spesso si sostiene o si spera in Occidente, il regime appare stabile e relativamente popolare. Grazie anche alle rendite energetiche e ai servizi sociali gratuiti, garantitia tutti malgrado negli ultimi trent’anni la popolazione sia raddoppiata, superando i 6 milioni. Certo la Libia non è un paese povero: il pil pro capite era di 16.115 dollari nel 2008.
Sulla Jamahiriyah regna la «Guida della rivoluzione», il cui potere informale ma cogente si radica nei vincoli tribali e familiari come nelle strutture di intelligence e di repressione che hanno finora smentito le previsioni di chi considerava inevitabile il crollo del regime.
Si può piegare la Libia con severe sanzioni internazionali? Ammesso che qualcuno in Europa ne sia tentato, l’esperienza induce allo scetticismo. Dopo una lunga prova di forza, non è stato infatti Gheddafi a cedere all’America, ma l’Occidente a scommettere sulla possibilità di domare le velleità del leader libico per accedere alle risorse del suo paese. Se sia stata una scommessa vincente, o un autogol, lo stabilirà fra l’altro l’evoluzione della disputa in corso. Per ironia della storia, un test rivelatore per le velleità di politica estera dell’Unione Europea prende le mosse dall’extracomunitaria Svizzera. Baronessa Ashton, se ci sei, batti un colpo (si fa per dire).