Egle Santolini, La Stampa 15/2/2010, pagina 5, 15 febbraio 2010
STUPRI E COLTELLATE NEL CODICE DEI LATINOS
I Latin Kings ecuadoriani e i loro avversari più arrabbiati, i Comando dal Perù. E poi i Soldao latino uruguagi, i Chicago di varie provenienze, i Nietas portoricani e dominicani. Adesso tutta la città ne parla, e comincia ad averne paura. Eppure le cosiddette «pandillas», le baby gang latine che si spartiscono certi quartieri di Milano (Cimiano e Crescenzago lungo la linea verde del metrò, piazza Bottini a Lambrate e piazza Carlo Erba a Città Studi dove si trova la discoteca Matisse, il Parco Turro e via Besenzanica) arrivano da lontano: nel nome, addirittura, dalla Chicago degli Anni Quaranta, dove i loro lontani predecessori strinsero il primo patto, in nome dell’orgoglio latino e della difesa nei confronti degli altri gruppi etnici, wasp e polacchi in primo luogo. In Italia se ne ha contezza almeno dal 2004, quando a Genova un’informativa riservata della polizia alla magistratura rivelò che c’era un gruppo in possesso di armi da fuoco, braccato da altre gang. In Lombardia il primo episodio eclatante nel 2005, quando in una discoteca di via Sammartini, lungo la massicciata della Stazione Centrale, un boss chiamato El Loco venne pescato con un’arma artigianale a canne mozze, insomma una lupara confezionata con tubi da idraulico, nascosta nei larghi pantaloni da rapper. Ma non si contano le risse, i ferimenti al coltello, gli arresti, le minacce, le violenze alle ragazze delle gang avversarie. Lo stupro viene usato pure come rito d’iniziazione per le aspiranti donne del capo, le cosiddette «queenies», mentre per i maschi l’ingresso alla gang viene segnato da una scarica di botte, al quale il novellino, il«targa», deve dimostrare di saper resistere. Se supera la prova riceve il «bip», la collana che vuol dire appartenenza alla gang.
Sono ragazzi di seconda generazione, figli in gran parte di colf e badanti. Donne rimaste da sole a combattere per la sopravvivenza, che spesso avevano lasciato i figli in patria e che poi li hanno chiamati con loro in Europa. Lo sbalestramento, la crisi d’identità dovuta all’impatto con un mondo nuovo si combattono per strada, nella solidarietà machista con gli «hermanos», i fratelli di sangue. Ecco allora i riti d’iniziazione; ecco anche il gergo, i tatuaggi, i segnali di riconoscimento, le bandane, i colori in codice, l’abbigliamento sfrontato da rapper, i graffiti in codice vergati sul muro per delimitare il territorio. Dov’è zona dei Kings, come in una versione postmoderna di «West Side Story», compaiono le corone, tracciate sull’intonaco dei palazzi oppure alluse nei gesti delle mani, con pollice, indice e mignolo: se le dita sono rivolte verso l’alto vuol dire che sei dei loro, se puntano verso il basso che li disprezzi, e che quella è la tua dichiarazione di guerra.
A parte il recente episodio di via Padova, ancora sub iudice, il morto c’era già scappato a Genova nel dicembre scorso: un giovane ecuadoriano di 19 anni accoltellato a Sampierdarena, nei pressi del centro sociale Zapata, che si era trascinato da solo, agonizzante, fino al pronto soccorso. di alcuni mesi prima, e cioè del giugno 2009, la condanna tra gli 8 e i 10 anni a tre componenti della MS-13, accusati di tentato omicidio per aver cavato un occhio a un rivale durante una rissa a Milano. Il 7 giugno era toccato a David Stenio Betancourt Noboa detto O Rey, 27 anni, ecuadoriano, Latin King. Ancora un locale, il Thini Cafè di via Brembo, ancora un branco, ancora il coltello. Glielo affondano nella schiena e nel fianco, ma è il colpo all’addome che uccide O Rey, in una livida alba metropolitana. Gli hermanos spiegano che è stato ammazzato perché aveva voglia di cambiamento e di riscatto, che lavorava per la pace tra le pandillas e per trasformare la distruttività delle gang in spirito di collaborazione e d’integrazione. In sua memoria fondano un’associazione che si chiama Quiero vivir por nuestros deseos, voglio vivere per i nostri desideri, e che parla di cose semplici come un amore, una famiglia, un lavoro, la tranquillità della vita. Soltanto belle parole di fronte all’incubo vissuto in via Padova sabato sera.
Egle Santolini