Francesco Moscatelli, La Stampa 15/2/2010, pagina 3, 15 febbraio 2010
NELLE CASE DI VIA PADOVA: "VIVIAMO IN UNA FOGNA"
Via Padova, via Fanfulla, via Chavez, via Arquà. Sono strade maledette: spaccio, prostituzione, immigrati che vivono come topi nei solai e nelle cantine». Antonio in via Padova ha comprato casa dieci anni fa. E se n’è pentito dopo ventiquattr’ore. «Viviamo in una fogna, questo è il ”refugium peccatorum” della città». Il giorno dopo l’omicidio di Ahmed e la rivolta dei nordafricani, gli italiani che vivono nel quartiere si sfogano. I confini fra rabbia, indignazione e razzismo sono scomparsi. Inghiottiti da una serata di paura. «Il mio cognome non ve lo dico, non mi fido. Questi qui, quelli con i vestiti eleganti e l’italiano facile sono i boss del quartiere: egiziani, marocchini, rumeni, cinesi, peruviani. Ogni gruppo ha il suo. Oggi vanno in giro a dire di stare tranquilli, che l’integrazione è possibile. In realtà vogliono solo che le telecamere si levino di torno per riprendere comodamente i loro traffici».
Ognuno racconta la storia del suo palazzo. Ma tutti raccontano la stessa: i vicini che hanno venduto in contanti agli stranieri, il bazar cinese o la macelleria islamica che hanno aperto al posto del panettiere, il degrado che giorno dopo giorno si è mangiato il quartiere, le difficoltà della convivenza quotidiana. «Lo vedete quel penny market al numero 65. Durante il giorno funziona come un normale supermercato, gestito da sudamericani. La sera, quando abbassano la serranda, vendono birra sottobanco e organizzano feste private. Di notte gli ubriachi salgono a pisciare lungo le scale».
Dietro il portone del civico 65 c’è un cortile deserto, tre cassonetti pieni di birre vuote e un via vai di inquilini provenienti dai quattro angoli del globo. una casa di ringhiera «vecchia Milano». Gli agenti immobiliari le chiamano così, per vendere ai clienti quattro muri e il fascino della città operaia. Quella dove i vicini di ballatoio venuti dal Sud si aiutavano a vicenda. Qualcuno ci crede ancora: «Noi qui stiamo bene – racconta Martina D’Innocenzio, 24 anni, una studentessa dell’Accademia di Brera che vive con altre ragazze in uno dei pochi appartamenti ”italiani” rimasti nel palazzo -. La convivenza fra etnie diverse a volte è difficile, ma c’è più integrazione qui che in qualunque altra zona della città». Chi ha vissuto la Milano degli Anni 60, però, scuote la testa e dice che da allora in via Padova è cambiato tutto. «Oggi chiedo a tutti di pagarmi in anticipo. Se non mi fido, invento una scusa e li invito a girare largo», spiega Antonino Bassi, un calzolaio siciliano sbarcato a Milano nel 1963. «Sono arrivata da Ostuni trent’anni fa e il giorno dopo mi sono messa a lavorare – racconta la signora Genoveffa, 76 anni ”. Oggi mi sembra che i nuovi arrivati pensino soprattutto a ubriacarsi e a dare problemi. Io abito al civico 70 di via Padova e nell’ultimo anno abbiamo cambiato due volte il portone, spendendo sedicimila euro. E’ rotto di nuovo ma l’amministratore ci ha detto di lasciar perdere. Fatica sprecata».
Molti vorrebbero vendere e trasferirsi, ma il mercato immobiliare è crollato. «Volevo fare un investimento e ho comprato due appartamenti per duemila euro al metro quadro – racconta un ragazzo italiano, uscendo dal portone di via Arquà 16 - Quando metto gli annunci mi chiama tutta Milano, ma ormai ho capito che i più affidabili sono i filippini e i cingalesi e affitto solo a loro».
Anche i più giovani sembrano disillusi: «Quando facevo le medie ho visto aprire i primi kebab. Ero contento. Sembrava Londra – racconta Riccardo, 23 anni, studente di Sociologia in Statale ”. Quando sulla 56 sono rimasto l’unico italiano, ho capito che c’erano dei problemi. In questi condomini succede di tutto. E poi ci stupiamo se i miti delle vecchiette sono Salvini e Prosperini?». A scommettere sul futuro del quartiere sono rimasti in pochi. Come don Piero Cecchi, da 13 anni parroco della chiesa di San Giovanni Crisostomo: «Via Padova non è una casbah. Da noi ci sono bellissime famiglie italiane, sudamericane, filippine e dell’Europa dell’Est. E abbiamo un rapporto rispettoso e cordiale con il centro islamico, un centro moderato e aperto al dialogo. Non fare distinzioni è un errore. Mio nonno mi ripeteva sempre un detto milanese: «Il bùn e il gram gh’in depertùtt».
Francesco Moscatelli