Joseph Nye, La Stampa 15/2/2010, pagina 1, 15 febbraio 2010
LA PROPAGANDA E’ DANNOSA PER I GOVERNI
Nell’epoca dell’informazione che viviamo oggi, la politica dipende anche dalla «storia» vincente. I governi competono tra di loro, e con altre organizzazioni, per far risaltare la propria credibilità minando quella degli avversari. Basta guardare il conflitto tra il governo e gli oppositori dopo le elezioni iraniane nel giugno 2009, in cui Internet e Twitter hanno svolto un ruolo cruciale, o la più recente controversia tra Google e la Cina.
La reputazione è sempre stata importante nella politica mondiale, ma la credibilità è diventata un fattore cruciale grazie al «paradosso dell’abbondanza». Quando l’informazione è abbondante, la risorsa che viene a scarseggiare è l’attenzione. E in questa circostanza inedita, un approccio morbido può rivelarsi, ancora più del solito, più efficace di quello duro. Per esempio, la relativa indipendenza della Bbc, che più volte ha provocato imbarazzi ai governi britannici, ha fruttato però ricchi dividendi di credibilità, come dimostrato da questo riassunto della giornata tipo del presidente della Tanzania Jakaya Kikwete: «Si alza all’alba, ascolta Bbc World Service, e poi legge la stampa locale».
Gli scettici che considerano il termine «diplomazia pubblica» come un eufemismo per la propaganda, non si rendono conto del problema.
Una propaganda esplicita è controproducente nel campo della diplomazia pubblica. Che peraltro non è soltanto una campagna di pubbliche relazioni: la diplomazia pubblica significa costruire relazioni durature che creano un contesto favorevole per le politiche governative.
Il contributo delle informazioni provenienti direttamente dal governo varia nelle tre dimensioni, o fasi, della diplomazia pubblica, tutte importanti. La prima e più immediata dimensione è la comunicazione quotidiana, la spiegazione del contesto nel quale vengono prese le decisioni di politica interna ed estera. Questa dimensione implica anche la preparazione ad affrontare le eventuali crisi. Se dopo un evento si crea un vuoto informativo, verrà riempito da altri.
La seconda dimensione è quella della comunicazione strategica, che sviluppa una serie di argomenti semplici, più o meno come una campagna pubblicitaria o elettorale. Mentre la prima dimensione viene misurata in ore, al massimo giorni, la seconda si sviluppa nell’arco di settimane, mesi e perfino anni.
La terza dimensione della diplomazia pubblica è lo sviluppo di relazioni durature con persone chiave, lungo anni o anche decenni, attraverso borse di studio, scambi, addestramenti, seminari, conferenze e accesso ai media. Questi programmi creano quello che il giornalista americano Edward R. Murrow una volta ha definito «gli ultimi tre passi»: comunicazione faccia a faccia, con la credibilità rinforzata dalla reciprocità.
Ma nemmeno la migliore campagna pubblicitaria riesce a vendere un prodotto impopolare. Una strategia comunicativa non funziona se va contro il tessuto della politica. Le azioni dicono più delle parole. Troppo spesso i politici trattano la diplomazia pubblica come un cerotto da applicare su una ferita provocata da altri strumenti. Per esempio, la Cina ha cercato di intensificare il messaggio di «soft power» che voleva lanciare con il successo delle Olimpiadi di Pechino nel 2008, ma la repressione in Tibet avvenuta quasi negli stessi giorni - e seguita da quella nello Xinxiang e dagli arresti dei difensori dei diritti umani - ha azzoppato questo sforzo.
Le grandi potenze cercano di usare la cultura e le narrative per creare un «soft power» che ne mostra i vantaggi, ma non sempre comprendono il funzionamento di questo meccanismo. Molti critici americani sostengono che la super-militarizzazione della politica estera danneggia la credibilità dell’America, e propongono invece una «diplomazia con gli steroidi», gestita da diplomatici addestrati all’uso dei nuovi media, a una conoscenza minuta delle realtà locali e all’uso di reti di contatto con gruppi sottorappresentati.
L’approccio centralizzato dei media alla diplomazia pubblica svolge tuttora un ruolo importante. I governi devono correggere giorno per giorno l’interpretazione errata delle loro politiche, e cercare di inviare messaggi di tipo più strategico. La forza principale dei media è la loro capacità di raggiungere un’audience vasta, segnalando i problemi all’opinione pubblica e dettando un’agenda. Ma possiedono anche una debolezza: sono incapaci di influenzare la percezione del messaggio inviato in vari segmenti culturali. Il mittente del messaggio sa cosa ha detto, ma spesso ignora quello che ha sentito il destinatario. Le barriere culturali tendono a distorcere il segnale.
Le comunicazioni di rete, invece, possono avvantaggiarsi della comunicazione in due sensi, e di quella orizzontale, per superare le differenze culturali. Questo tipo di decentralizzazione e flessibilità è difficile da raggiungere per i governi, a causa della loro struttura della responsabilità centralizzata. La maggiore flessibilità delle organizzazioni non governative in questo campo ha dato inizio a quello che qualcuno ha già definito «la nuova diplomazia pubblica», che non si limita solo a inviare messaggi, promuovere campagne o dialogare con esponenti governativi stranieri. Essa contribuisce anche a costruire relazioni con i protagonisti della società civile in altri Paesi, agevolando la rete di contatti tra entità non governative in patria e all’estero.
Questo approccio alla diplomazia pubblica dovrebbe spingere le politiche governative a promuovere e partecipare più che a controllare direttamente queste reti che attraversano i confini. Un controllo eccessivo, o anche solo la parvenza di esso, possono minare la credibilità dell’operato di queste reti. L’evoluzione della diplomazia pubblica dalle comunicazioni a un senso solo verso un dialogo vede nell’opinione pubblica una coautrice di significati e contatti.
Nell’era dell’informazione globale il potere più che mai dovrà includere una dimensione «soft» di attrazione, oltre agli strumenti «duri» della coercizione e del pagamento. La combinazione efficace di questi meccanismi viene chiamata «smart power», potere intelligente. Per dare un esempio, la lotta contro il terrorismo internazionale oggi è una guerra per conquistare cuori e menti, dove l’eccessivo affidamento alla forza da solo non porta al successo.
La diplomazia pubblica è uno strumento importante nell’arsenale del potere intelligente, che però richiede la comprensione dell’importanza della credibilità, dell’autocritica e del ruolo della società civile nella generazione del «soft power». Se la diplomazia pubblica degenera in propaganda, non solo smette di convincere, ma può avere un effetto negativo. Deve rimanere un processo a due sensi, perché il «soft power» dipende prima di tutto dalla comprensione degli altri e del loro modo di pensare.
Joseph Nye
Copyright: Project Syndicate, 2010.
*ex sottosegretario alla Difesa Usa, professore all’Università di Harvard