Massimo Gramellini e Carlo Fruttero, La Stampa 14/2/2010, pagina 88, 14 febbraio 2010
STORIA D’ITALIA IN 150 DATE
21 settembre 1864
Torinesi, crié nen
La colpa è dei giornalisti, come sempre. Alle due del pomeriggio esce la Gazzetta di Torino con un articolo che rivela i contenuti della Convenzione di Settembre firmata dai governi francese e italiano: il primo si impegna a sloggiare da Roma in cambio di un analogo impegno sabaudo a non occuparla, suggellato dallo spostamento della capitale da Torino a Firenze. L’articolo non si limita a dare la notizia. Sostiene che è buona. La gente s’aggira furibonda con il giornale fra le mani. «Se almeno non si chiamasse di Torino. Andiamo a staccargli l’insegna». La rivolta comincia così. La dipingeranno come un episodio di campanilismo, ma a protestare in piazza san Carlo sono anzitutto i ministeriali che temono di perdere il posto: quei monsù Travet (signor Travicello) che l’anno precedente avevano fischiato a teatro la prima dell’omonima commedia di Bersezio, ritenendola lesiva del loro onore di impiegati statali. Davanti alla sede della Gazzetta va in scena il prologo di un dramma vero: pietre, tafferugli, qualche contuso. Poi tutti a far ressa sotto casa del sindaco: «Torinesi, crié nen» (non gridate), esordisce il marchese di Rorà affacciato al balcone. «Parla italiano, siamo italiani». «Torinesi, voi avevate un gioiello». «Ce l’hanno rubato, assassini!». «Un gioiello, dicevo: la fama di popolo tranquillo e civile». «Che gusto matto prendersela coi giornalisti», dice uno, probabilmente un giornalista. «La colpa è del governo. Abbasso i ministri!». Il malumore trasloca in piazza Castello, sotto il ministero degli interni dell’onorevole Peruzzi, toscano, e come tale sospettato di aver ordito lo scippo. All’improvviso un drappello di carabinieri esce dal palazzo e spara a casaccio sulla folla: 12 morti, 40 feriti. Ma i torinesi non scappano. Si fanno sotto ai carabinieri, urlando: «Tira carogna! Tira caplòn!» (cappellone).
Il giorno dopo i contestatori sono cresciuti di numero. Scrive il De Sanctis, testimone oculare: «Il popolo mantiene un aspetto di tristezza taciturna che fa paura». In piazza san Carlo avviene la carneficina più assurda. Guardie e carabinieri si sparano fra loro, entrambi convinti di rispondere al fuoco inesistente dei dimostranti, che lasciano sul selciato decine di vittime, raggruppate al centro della piazza sotto la statua di Emanuele Filiberto (il Caval ”d Brons). Il Re si rende conto di aver sottovalutato gli effetti del cambio di capitale e offre ai torinesi lo scalpo del premier Minghetti, emiliano, affidando il governo al generale La Marmora, piemontese. In seguito visiterà i feriti e assegnerà una pensione agli orfani. Ma nessun gesto potrà lenire un trauma che non è mai stato superato. Il lamento molto torinese, secondo cui ogni cosa che nasce a Torino viene poi deportata altrove, comincia allora.