Marco Fortis, Il Sole-24 Ore 16/2/2010;, 16 febbraio 2010
ITALIA: PEGGIO I CONTI O IL PAESE
Si ha l’impressione che questa crisi globale abbia insegnato poco non soltanto ai più avidi banchieri di Wall Street che imperterriti non rinunciano ai loro lauti bonus, ma anche a molti commentatori che continuano ad analizzare il posizionamento della nostra economia sulla base di assunti e parametri che la crisi stessa ha reso completamente superati.
Basti pensare all’idea che l’Italia (ma lo stesso può valere per la Germania) abbia avuto negli ultimi anni una crescita economica inferiore a quella di Stati Uniti, Gran Bretagna e Spagna a causa della superiorità assoluta del modello di sviluppo di questi paesi, basato sul trittico "magico" meritocrazia- liberalizzazioni-servizi. Superiorità confermata anche dal fatto che, scoppiata la recessione, il Pil dell’Italia (analogamente a quanto è avvenuto in Germania e Giappone) è diminuito nel 2009 più di quelli americano, inglese e spagnolo.
Oppure si pensi alla tesi secondo cui il Pil italiano sarebbe cresciuto poco nell’ultimo decennio per un deficit strutturale di competitività del nostro paese sui mercati internazionali (da cui discenderebbe una delle cause del nostro "declino"). E che nella fase della ripresa mondiale il ritardo in termini di tasso di crescita dell’economia italiana si riprodurrà tal quale come nel recente passato.
In realtà, come mostrano inequivocabilmente alcuni nuovi dati appena pubblicati dalla Banca di Francia, la più forte dinamica del Pil di Stati Uniti, Gran Bretagna e Spagna rispetto non solo all’Italia ma anche alla Germania, alla Francia e al Giappone, dalla seconda metà degli anni 90 sino allo scoppio della crisi, è stata dovuta non tanto al trittico meritocrazia- liberalizzazioni- servizi (la cui importanza non intendiamo minimamente mettere in discussione e di cui l’Italia avrebbe certamente molto bisogno) ma all’esplosione dell’indebitamento del settore privato (famiglie e imprese non finanziarie). M
entre sin dall’inizio del nuovo secolo Germania e Giappone si impegnavano a contenere il loro indebitamento privato e Italia e Francia registravano un aumento del proprio mantenendolo però su livelli assolutamente controllabili, nei paesi anglosassoni e in Spagna si registrava una formidabile accelerazione dello stesso. In particolare, dalla fine del 2001 a tutto il primo trimestre del 2008 la "bolla" immobiliare, finanziaria e del credito al consumo ha fatto crescere il rapporto tra indebitamento del settore privato e Pil di 30 punti negli Stati Uniti, di 48 punti in Gran Bretagna e addirittura di 83 punti in Spagna.
Quanto alla presunta scarsa competitività dell’Italia sui mercati internazionali, le ultime statistiche della Wto dimostrano che Italia e Germania sono stati gli unici paesi industrializzati le cui quote di mercato sul totale dell’export mondiale di manufatti non alimentari hanno "tenuto" tra il 2000 e il 2008, mentre la Cina balzava in pochi anni dal sesto al primo posto assoluto tra gli esportatori mondiali, innalzando la sua quota dal 4,7% al 12,7 per cento.
In particolare, la quota dell’Italia nell’export mondiale di manufatti era del 4,5% nel 2000 ed è diminuita solo marginalmente, scendendo al 4,3% nel 2008, mentre altri paesi avanzati, i cui Pil sono cresciuti nel frattempo molto di più di quello dell’Italia, hanno registrato diminuzioni delle loro quote di mercato nell’export mondiale manifatturiero varianti dall’1,3% della Francia all’1,8 della Gran Bretagna, sino al 2,9 del Giappone e al 4,6 degli Stati Uniti.Dunque non è per una carenza di competitivitàche l’italiano nell’ultimo decennio è cresciuta poco. Se le famiglie italiane si fossero indebitate come quelle americane e inglesi oggi non saremmo qui a fare questi ragionamenti sulle diverse dinamiche pre-crisi dei Pil, ma anche noi piangeremmo lacrime amare con banche salvate a caro prezzo o nazionalizzate, deficit pubblici alle stelle e tassi di disoccupazione assai più elevati.
Il grande problema adesso è quello dei debiti pubblici che si stanno ovunque ingigantendoper far fronte ai disastri generati dall’aumento dell’indebitamento privato, per troppi anni rimasto assolutamente fuori controllo. Ed è qui che si evidenziano le crepe del modello di sviluppo di quei paesi avanzati che si riteneva crescessero economicamente molto più degli altri, almeno guardando soltanto all’indicatore classico di riferimento rappresentato dal Pil. In realtà, Stati Uniti, Gran Bretagna e Spagna ostentavano Pil sicuramente dinamici, ma, come nel caso di certe aziende che hanno giri d’affari in crescita generando però perdite che richiedono alla fine l’abbattimento del capitale, stavano accumulando problemi giganteschi nei bilanci di famiglie, imprese e banche, indebolendosi anno dopo anno. E ora dovranno farsi carico anche di deficit di bilancio e debiti pubblici in rapida cre-scita, per cui la loro situazione tenderà a peggiorare ulteriormente.
Nonostante il notevole indebitamento privato spagnolo e i guai della piccola Grecia, la vera potenziale crisi del debito non sta nell’Eurozona, ma nel mondo anglosassone, che ora non ha più soltanto un altissimo debito privato ma anche un debito pubblico in preoccupante espansione. Sono i dati a dirlo. Secondo la Banca di Francia il debito aggregato complessivo (famiglie, imprese non finanziarie e amministrazioni pubbliche) dell’Eurozona a giugno 2009 era pari al 214% del Pil, contro valori corrispondenti del 234% degli Stati Uniti e del 242% della Gran Bretagna. Dunque, altro che scenario di fuga degli investitori internazionali dall’"euro debole" verso il porto sicuro dei titoli del Tesoro statunitense! Per Niall Ferguson oggi «il debito pubblico americano è un porto sicuro quanto lo era Pearl Harbour nel 1941» (Financial Times, 10 febbraio 2010).
Se usciamo dai canoni tradizionali di misurazione del debito pubblico (che è uno stock), il quale tuttavia per convenzione viene rapportato al Pil (che è un flusso), e se utilizziamo grandezze di riferimento diverse e più rappresentative anche della situazione patrimoniale dei vari paesi, potremmo scoprire significative sorprese. Si prenda, ad esempio, il caso dell’Italia e degli Stati Uniti e si rapporti il debito pubblico non al Pil, ma alla ricchezza netta delle famiglie (inclusi i beni reali come case e terreni), dunque a un altro stock. In questo caso le fonti di riferimento sono la Fed e la Banca d’Italia. I dati degli Stati Uniti comprendono, oltre alle famiglie anche le istituzioni non profit.
Inoltre, includono anche i beni di consumo durevoli (che è però possibile depurare).
Nel 1995 il rapporto debito pubblico/ricchezza netta delle famiglie era pari al 25,6% per l’Italia,tradizionale "pecora nera"del debito pubblico, e al 19,6% per gli Usa (senza beni durevoli). Ma alla fine del primo semestre del 2009 tale rapporto si è completamente rovesciato: infatti, è sceso al 21,1% per l’Italia mentre è salito al 25% per gli Stati Uniti. Che cosaè accaduto? Semplicemente che i vari governi italiani che si sono sin qui succeduti a partire dagli anni 90, con personalità particolarmente attente ai problemi dei conti dello stato come Amato, Ciampi, Prodi e Tremonti, si sono costantemente adoperati per ridurre o perlomeno frenare il debito pubblico, mentre nel frattempo la ricchezza netta degli italiani cresceva a valori correnti senza brillare, ma con regolarità e su basi solide.
Per contro, nello stesso periodo la ricchezza netta delle famiglie americane sperimentava un forte incremento apparente, soprattutto nel 2002-2006 (+55,8%contro +28%dell’Italia), sulla spinta dei rialzi delle Borse e dei valori immobiliari. Tale incremento però si è poi drammaticamente ridimensionato nel 2008 dopo lo scoppio della "bolla" (-20,4% rispetto al 2007, contro un modesto -1,9% dell’Italia). Intanto, l’amministrazione americana ha dovuto cominciare a farsi carico dei problemi generati dall’indebitamento privato e dalla recessione che esso ha generato. Sicché il debito pubblico federale (senza contare quello degli Stati, alcuni dei quali, come la California, sono in gravi difficoltà) è salito dagli 8,7 trilioni di dollari di fine 2007 a 11,5 trilioni nel primo semestre 2009 (+ 32%), mentre il debito pubblico italiano aumentava nello stesso periodo da 1.600 a 1.752 miliardi di euro (solo +9,4%).
Il risultato di tutta questa vicenda, che molti ancora faticano a comprendere, è un’autentica rivoluzione. Infatti, nel 2008-2009 lo stock del debito pubblico degli Stati Uniti in rapporto allo stock di ricchezza delle famiglie ha superato abbondantemente quello dell’Italia, mentre il " flusso" del deficit pubblico americano in rapporto al Pil è stato nel 2009, secondo l’ultimo consensus dell’Economist, pari al 9,9%, cioè il doppio di quello italiano(5%).
Tutto ciò non deve farci indulgere a compiacimenti, perché i problemi dell’Italia sono tanti e ben noti. Tuttavia, dovrebbe far riflettere di più su quanto sia stata "drogata" la crescita americana degli ultimi anni in rapporto alla nostra (che, quindi, non era poi così deludente).