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 2010  febbraio 15 Lunedì calendario

VIAGGIO AL TERMINE DELL’ITALIA TERRA DI LACRIME E MOZZARELLE

Anche i critici letterari sognano. Sognano che un giorno gli capiti da recensire un romanzo bello come Quer pasticciaccio brutto de via Merulana o La cognizione del dolore di Gadda o Viaggio al termine della notte di Céline. Come se fossero libri pubblicati adesso, nel 2010, e non nel 1957 o nel 1963 o nel 1932. I critici letterari sognano che il meglio non sia passato. Oggi il sogno si è avverato. Il romanzo bello come il Pasticciaccio brutto (ovviamente chi scrive è pienamente consapevole che la responsabilità critica, così come quella penale, è personale) si intitola Hanno tutti ragione e Feltrinelli lo manderà in libreria il 10 marzo. L’ autore è Paolo Sorrentino, il trentanovenne regista del Divo, all’ esordio letterario. E già, nell’ ambiente, si vocifera di Premio Strega (magari!, così tornerebbe all’ antico splendore). La prima domanda che faccio al neo-romanziere (che incontro a Roma, nella sede della «Indigo Film», in una traversa di via Merulana e forse non è un caso) è: Sorrentino, lei si rende conto di quello che ha scritto? Si rende conto che per il suo romanzo si possono scomodare i nomi di Gadda e Céline senza tema di smentite? «Non mi dica così, non mi metta in imbarazzo. Io so solo che finite le vacanze, questa estate, mi sono accorto di avere un po’ di mesi a disposizione. I preparativi per il nuovo film andavano a rilento. Sa, i tempi morti del cinema...». E allora si è messo a scrivere la storia di Tony Pagoda? «Sì, scrivere mi è sempre piaciuto, fin da ragazzo». Vuole farmi credere che così come Luigi Tenco, nella famosa canzone, si era innamorato perché non aveva niente da fare, lei ha scritto questo dio di romanzo, come direbbero nella sua Napoli, perché non aveva niente da fare? «Sì. E mi sono divertito moltissimo. Ho potuto fare quello che non posso fare al cinema: parlare dei personaggi punto e basta. Senza stare a chiedermi come si sviluppano, che cambiamenti subiscono. Volevo solo raccontare alcuni esseri umani senza preoccuparmi della trama o delle immagini come devo fare da sceneggiatore e da regista». E quando l’ ha finito che cosa ha fatto? «Allora si sono affacciati gli scrupoli. Perché mi è venuta la paura di essere preso per uno che sfrutta quel po’ di notorietà che ha per andare pure a fare il romanzo da Feltrinelli. Io ho una sorta di rispetto sommo della letteratura...». Guardi che il vero rispetto sommo della letteratura è scrivere un romanzo del genere. inventare un personaggio come Tony Pagoda, un eroe del nostro tempo, il più grande personaggio della letteratura italiana contemporanea (non si preoccupi, lo so che la responsabilità critica è personale come quella penale). Senta, parliamo di Pagoda. Dunque, è un cantante da night, ma al di là delle etichette, come lui rivendica giustamente, è un uomo. Un uomo che canta canzoni lancinanti tipo «Lunghe notti da bar» (e per questo, in una scena, riceve addirittura i complimenti da Frank Sinatra in persona), un uomo che è un tale aspirapolvere di cocaina da scandalizzare persino il medico svizzero che lo deve disintossicare. Uno che è un kamasutra vivente (il catalogo delle sue performance amorose va avanti per due pagine ed è puro godimento in tutti i sensi della parola). Ma dove l’ ha trovato questo tipo larger than life come direbbero gli americani, uno che nella vita ci sta davvero stretto? «L’ embrione di Pagoda è un personaggio del mio primo film, L’ uomo in più. Allora si chiamava Pisapia, ma avevo capito che meritava più spazio, maggiore attenzione da parte mia. E l’ ho capito un giorno sul set guardando Toni Servillo, che interpretava Pisapia, con una parrucca rossiccia e i Ray-Ban azzurrati. Guardandolo, ho capito che ci saremmo rivisti, che ci saremmo ancora frequentati. Chi è Pagoda? un vitalista, uno che dice: in ultima analisi, la vita è una favolosa rottura di coglioni. Ma su che cosa dobbiamo concentrarci: sulla rottura di coglioni o sul favoloso? Lui opta per il favoloso. Pagoda è uno che cerca il senso della vita». Pagoda, guardando le sette foto della mamma morta che gli rimangono, capisce che abbiamo smarrito il senso e il piacere di una vita semplice (che non significa banale, tutt’ altro). E sostiene che quest’ idea perduta della vita c’ era nelle canzoni del Quartetto Cetra e dei Ricchi e Poveri e, in generale, nella musica leggera italiana. Cos’ è, una concessione corporativa di un cantante ai colleghi? «No, questa è una verità tenuta nascosta peggio di un segreto da loggia massonica. C’ è, nella canzone italiana, il sentimento nudo e puro dell’ esistenza (se vuole, lo stesso che c’ è nei primissimi film dei fratelli Lumière). Quelle canzoni ci dicono con semplicità cose profondissime e difficilissime da dire altrimenti. Pensi a Ornella Vanoni: "Proviamo anche con Dio non si sa mai". Pensi a Anna Oxa: "L’ imponderabile confonde la mente". A Patty Pravo: "Sono tutti degli eroi quando vogliono qualcosa"». Secondo Pagoda, alle mamme che apprezzavano il piacere genuino della vita sono succeduti figli «torvi, sinistri, finto tenebrosi», che credono d’ essere complessi ma sono solo complicati e che alla fine si sono procurati unicamente «un mastodontico, martellante, incomprensibile disagio». E qui, con uno dei suoi colpi di genio, Tony spiega che la vita fasulla e intellettualoide che viviamo è uguale ai cibi fasulli e intellettualoidi che mangiamo. Una decadenza gastronomico/esistenziale cominciata con il risotto allo champagne, proseguita con le pennette alla vodka, passata per il maltagliato alla vongola e sfociata nella tartare di tonno. Lascio la parola a Pagoda: «Eppoi, diciamocelo, non ce la facciamo più con la tartare di tonno. Ovunque si vada, essa c’ è. Come Alba Parietti. Ha rotto i coglioni la tartare di tonno». Viene voglia di chiedergli il bis a Pagoda, dopo questo pronunciamento, come quando in concerto canta «Lunghe notti da bar». «Ma guardi che è così davvero. I menu contemporanei rispecchiano l’ insensatezza del mondo contemporaneo. Una sera, stavo già scrivendo il libro, vado al ristorante con mia moglie e il cameriere: "Oggi abbiamo puzzle di spigola". Fermo lì, gli ho detto, mi porti subito, per favore, una penna e un foglio che devo prendere appunti». Parliamo dello strepitoso linguaggio di Pagoda. Un esempio: «Vedo il pastore, il contadino che vuole risolvere alla sua maniera l’ eterno problema dell’ agricoltura e della vita: il confine». Direi che è definitivo. «Sarò sincero, quando mi è venuta questa frase mi sono stupito di me stesso. Ho scritto al di sopra delle mie possibilità. Diciamo che è stato un momento di grazia». A proposito di linguaggio, c’ è nel romanzo la denuncia dello scrittore ultraottantenne Gegè Raja: «Roma, e dunque l’ Italia, si è ridotta a un neologismo: figo. Tutto è figo o non è figo. Un’ anoressia della parola. Una stitichezza della sensazione... Uno dovrebbe andare in analisi e dire: dottore, ci ho la depressione. Linguistica, però. E quello ti risponde: figo. Vabbuò, allora bisogna cambiare analista». Lei ingaggia, contro questa depressione linguistica, una battaglia a colpi di invenzioni verbali, di immagini. A un certo punto, Pagoda si lancia in un elogio degli aggettivi che, secondo lui, sono anche una formidabile arma di seduzione sessuale. E la sua posizione personale in merito agli aggettivi qual è? «Li adoro decisamente. Tra l’ altro, se ti porti appresso, come mi porto appresso io, il complesso intellettuale, l’ aggettivo serve a camuffarti. Quando non puoi addurre sostanza vera, perpetri l’ inganno nei confronti del prossimo attraverso l’ uso dell’ aggettivo mirabolante. La ricerca dell’ aggettivo pertinente può essere un momento di estrema emozione. Ho avuto grandi maestri in materia. Il primo lo ricordo alla fine del libro e lo ringrazio con queste parole: "Umberto Contarello, che molti anni fa mi ha precipitato nel mondo degli aggettivi sconosciuti e delle metafore impossibili"». Ci sarebbe ancora tanto da dire del romanzo. Il grande amore, sullo sfondo di Capri, per la bellissima Beatrice che segna per sempre la vita di Pagoda. Il suo matrimonio che lui compendia lapidario in due frasi: «Quindici anni fa, con mia moglie, si scopava da bufali. Ora è un oggetto d’ arredamento». L’ autoesilio di Tony per vent’ anni a Manaus tra donne bellissime, scarafaggi enormi e uno strano individuo che è il custode dei segreti d’ Italia (compreso quello, inconfessabile e inconfessato, dello stesso Pagoda). Infine, il suo ritorno in «questa valle di lacrime e di mozzarelle», in questa Italia forse mai fatta ma ora tutta rifatta, dove lo aspettano esperienze raccapriccianti come: «Carezzare un seno e visualizzare la barba del chirurgo». Il suo ritorno in una Roma che così gli appare: «Roma è un’ impressione. una Sindone. Sbiadita. E dentro non c’ è nessun dio». Non possiamo più seguire nemmeno il consiglio di Ornella Vanoni («Proviamo anche con Dio non si sa mai»). Un’ ultima domanda: Sorrentino, la filosofia di questo romanzo è quella del titolo? «Sì, in ultima istanza, penso veramente che hanno tutti ragione. Che è vero tutto e il contrario di tutto. E che, come dice il maestro Mimmo Repetto, idolo di Pagoda, l’ unica cosa importante è la sfumatura».
Antonio D’Orrico