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 2010  febbraio 15 Lunedì calendario

L’EUROPA DELLE «ISOLE» ETNICHE - L’

altro ieri, a Stoccolma, 300 cittadini svedesi nati in Iran, che urlavano «morte a Khamenei», hanno affrontato un centinaio di poliziotti svedesi che di Khamenei non avevano probabilmente mai sentito parlare. Lanci di pietre, un paio di arresti. Notizia così banale, per la città, da aver appena sfiorato le prime pagine delle cronache. Qualche settimana fa, a Bruxelles, capitale dell’ Unione Europea e simbolo dell’ integrazione comunitaria, dopo una gagliarda prestazione della squadra di calcio dell’ Anderlecht un gruppetto di suoi tifosi non sapeva come celebrare. Ragazzi aderenti a una curva che da anni vanta legami con gruppi ultranazionalisti fiamminghi, alla fine hanno scelto la meta dei loro festeggiamenti: il quartiere di Schaerbeek, dove un abitante su tre si professa musulmano ed è immigrato dalla Turchia o dal Maghreb. Non era causale, l’ avevano fatto altre volte. Così, detto e fatto: sciarpa sul viso e cinghia in pugno, dopo qualche coro, qualche braccio teso alla moda di Norimberga e qualche bottiglia di birra trappista in frantumi, i ragazzotti dell’ Anderlecht correvano inseguiti da decine di loro coetanei locali che si incitavano a vicenda in turco o in arabo. «Jallah, jallah», «avanti, avanti», se li prendevano li convertivano a mazzate e buon per loro che è arrivata la polizia a salvarli. Il calcio non c’ entrava nulla, la religione neppure, la disoccupazione neanche, il Belgio o Bruxelles men che meno. Come, un anno prima, non c’ entrava Bruxelles negli scontri che nello stesso quartiere avevano opposto altri giovanotti turchi a immigrati curdi ed armeni, nel ricordo delle stragi compiute cent’ anni prima nell’ impero ottomano. E come, l’ altra sera, via Padova e Milano sembravano un palcoscenico, per l’ esplodere della rabbia fra immigrati africani e sudamericani. Ma questa è l’ Europa, oggi, con i suoi 8 milioni di extracomunitari senza permesso di lavoro e di residenza. Questa è l’ Unione Europea, i cui 27 Paesi faticano a consolidare una legislazione comune, omogenea, su come affrontare le sfide dell’ immigrazione extracomunitaria. almeno dal 2004 che si cerca di raggiungere questo risultato, e molti passi avanti sono stati fatti, se non altro sulla carta (come quello della «carta blu», il sistema simile alla «green card» americana che dovrebbe attirare l’ immigrazione altamente qualificata): ma nei fatti, il panorama legislativo attuale è ancora come l’ abito di Arlecchino. E il prezzo più alto lo pagano i laboratori sociali dove si compie (e spesso fallisce) l’ esperimento dell’ integrazione: le città. C’ è la Svezia - 12% di immigrati sulla popolazione totale, secondo i dati Onu ed Eurostat - che ha accolto in media il 76% delle richieste di asilo da parte di immigrati iracheni e ora però sta cercando di «reindirizzarne» almeno 10 mila verso altri Paesi Ue. E c’ è la Grecia (percentuale di immigrati: 8,8%) che di iracheni non ne ha accolto quasi nessuno. C’ è la Germania (12,3%), che ufficialmente non permette le espulsioni ma poi pratica le estradizioni, dopo regolare condanna, e a volte anche per reati minori. C’ è la Francia (10,1%), che non parla di «espulsioni» ma di «partenze umanitarie»: termine che si riassume in un’ iniziale «protezione sul posto», per l’ immigrato non in regola, e poi nel suo accompagnamento verso un «paese d’ origine sicuro», ammesso che ne esista uno. Sembra che funzioni. Ma le città della Francia, proprio loro, non sono modelli di integrazione: come hanno insegnato a suo tempo le fiamme della banlieue, divampate fin dietro Pigalle. E c’ è poi l’ Olanda (10%), che a molti neo-immigrati non solo chiede di seguire un corso di lingua, ma anche di dare un’ occhiata a un film dove, fra l’ altro, si assiste a un bacio fra omosessuali e si vede la panoramica di una spiaggia per nudisti. Messaggio sottinteso: queste cose sono normali nella nostra società, sei disposto ad accettarle? Ma anche qui, non si sa quali siano i risultati di questa assimilazione a tappe forzate. Anzi, l’ assimilazione è una coperta piena di buchi: ad Amsterdam si moltiplicano gli scontri fra immigrati indonesiani e di Timor Est; il venerdì in qualche moschea si ricorda ancora il rogo di Schipol (11 immigrati morti nel Centro di detenzione dell’ omonimo aeroporto, nel 2005) e Theo van Gogh è pur sempre stato ucciso in Olanda, non in Arabia Saudita. E dire che le ultime statistiche della Ue sembrerebbero certificare la vera notizia, una notizia controcorrente: l’ immigrazione extracomunitaria è in calo, non in aumento, per via della recessione. In Olanda, le richieste d’ asilo sono dimezzate. In Irlanda, che aveva accolto l’ ondata più forte sull’ onda del suo «boom» economico (quasi il 15% di immigrati), decine di migliaia di polacchi e lituani hanno fatto le valigie. E pure in Spagna (11,1%) romeni e bulgari sarebbero in partenza. Ancora una volta, però, tutto questo non placa la febbre della città. Ed è la microconflittualità quotidiana, più che i disordini su larga scala, a segnare l’ andamento del malessere. A Birmingham, nel Regno Unito (9,1%), mesi fa sono volate le molotov dopo che operai inglesi avevano invocato British jobs for British workers, «posti di lavoro britannici per lavoratori britannici», e dopo che gli immigrati polacchi si erano schierati per le strade. A Malmoe, in Svezia, città dove ormai i musulmani sarebbero maggioranza - almeno nel quartiere di Rosengard - la polizia ha fatto disputare senza pubblico, a porte chiuse, i recenti incontri di Coppa Davis dove giocava Israele. Malmoe, in questi anni, ha visto scoppi di furia distruttiva, quasi da guerra civile: tanto che un inviato di Al Jazeera ha parlato di «rabbia imprevedibile». Intervistati dalle Tv di mezzo mondo, i giovani locali hanno accusato i poliziotti di «provocazioni continue»: «e poi si meravigliano se reagiamo?». Ma anche lì, un movente reale non è stato accertato. Come negli altri laboratori del malessere europeo. Che intanto, fanno sentire la loro voce: «Eurocities», l’ organizzazione che raccoglie 130 città europee, ha chiesto alla Ue di poter assumere un «ruolo maggiore» nell’ affrontare i problemi dell’ immigrazione nei centri urbani. C’ è il senso di un’ urgenza, anzi di un’ emergenza conclamata. Ma forse la vera diagnosi l’ ha azzeccata, oltre Atlantico, il Los Angeles Times: «Gli Stati Uniti - ha scritto - hanno lottato con la questione dell’ immigrazione fin dalla loro nascita, così è facile dimenticare che questi sono temi relativamente nuovi per gli Stati europei, rimasti omogenei per secoli. Ma questa differenza ci è stata ricordata quando centinaia di lavoratori africani sono scesi in rivolta in Calabria».
Luigi Offeddu