Lauretta Colonnelli, Corriere della Sera 14/2/2010, 14 febbraio 2010
CHRIS, ERA BURDEN
Seduto sui tappeti orientali della sontuosa tenda nomade ricostruita nella sala ovale della Gagosian Gallery, Chris Burden racconta: «Avevo poco più di vent’anni, frequentavo i corsi di architettura all’università e all’improvviso ho capito che avrei dovuto aspettare i cinquanta per prendere una decisione riguardo al mio lavoro di architetto». E nel frattempo? Ha fatto quello per cui tutti lo ricordano: è diventato uno dei più famosi e discussi protagonisti dell’arte contemporanea, con una serie di performance molto violente che spesso hanno messo a rischio la sua stessa sopravvivenza. Il successo arrivò nel 1971, con «Shoot», in cui si fece sparare da un amico un colpo di fucile nel braccio. Di quell’esperienza restano le foto, che mostrano la faccia in evidente stato di choc di un ragazzo della buona borghesia americana mentre cerca di tamponare il sangue che esce copioso dal braccio sinistro. Burden aveva 25 anni. Era nato nel 1946 a Boston e aveva studiato presso l’università della California a Irvine.
Sono gli anni in cui nel mondo dell’arte si era diffusa la moda di usare pratiche cruente sul proprio corpo o su quello degli animali, in azioni sempre più provocatorie con lo scopo di vivere in prima persona esperienze concettuali e al tempo stesso pericolose. Burden oggi non rievoca volentieri quelle esperienze. Ma il loro elenco fa ormai parte della storia dell’arte. In un decennio riesce a vivere come naufrago in un’isola deserta, a sdraiarsi lungo la linea centrale di un’autostrada di Los Angeles coperto da una tela cerata e segnalato soltanto da una coppia di fari, a contorcersi sul pavimento con anelli di rame ai polsi e ai piedi e due secchi d’acqua collegati alla corrente da 220 volts, a rotolarsi al suolo con i pantaloni infuocati imbevuti di combustibile, a inspirare acqua immergendo la testa in un lavandino per cinque minuti fino a collassare, a farsi lanciare dal pubblico dei coltelli che lo colpiscono quattro volte allo stomaco e una al piede, a farsi rinchiudere per cinque giorni in un armadio metallico, a farsi appendere nudo a testa in giù con le caviglie legate a una corda. Il culmine lo raggiunge quando si fa crocifiggere sul cofano della propria automobile e leggenda vuole che la performance abbia ispirato a David Bowie la canzone «Joe the Lion»: «Joe il leone entrò nel bar, un paio di drink della casa e diventò un indovino, disse "crocifiggimi sulla mia macchina e ti dirò chi sei"».
Queste esperienze venivano filmate e fotografate, in modo da costituire delle prove sui limiti che il corpo umano può sopportare. Di una sola performance non resta alcuna traccia: si intitolava «Tv Hijack»: Burden, invitato da un tv locale per una intervista, puntò il coltello alla gola della giornalista, minacciando di ferirla se avesse interrotto il programma. Al termine della registrazione si fece consegnare il nastro e lo distrusse. Burden non era il solo a lanciarsi in trasgressioni di questo genere, anzi. La moda dilagò al punto da spingere la Corte Suprema americana a prendere la decisione di regolare la decenza nell’arte e di negare qualsiasi finanziamento pubblico agli artisti che per realizzare le loro opere avessero usato sangue, escrementi e atti violenti. «L’arte non è immorale» risponde oggi Burden alla domanda se un artista debba imporsi dei limiti. «L’arte è amorale, è neutrale, il limite è legato alla pratica di ogni singolo artista. Ognuno deve decidere se e quali regole dare a se stesso». Lui, con gli anni, ha abbandonato le performance ed è passato alle installazioni. Superati i cinquant’anni, come aveva previsto, ha deciso in fondo di ritornare all’architettura. Le tende e il gazebo vittoriano ricostruiti alla Gagosian sono pieni di suggestioni. Ma attenti a non farsi ingannare: nella stanzetta a fianco Burden continua a provocare, con un video in cui si vede il suo faccione che emerge da una vasca piena d’acqua e per oltre due minuti, nelle vesti di un predicatore xenofobo, lancia invettive che turbano profondamente il senso di bellezza e di pace trasmesso dall’installazione.