Miguel Gotor, Il Sole-24 Ore 14/2/2010;, 14 febbraio 2010
I GOVERNATORI DELL’ALTRO MONDO
Scrivere la storia comparativacomporta dei movimenti che non sono diversi da quelli che servono per suonare la fisarmonica. Le due società paragonate sono spinte l’una verso l’altra, ma solo per essere nuovamente separate». Con queste parole John H. Elliott, Regius Professor Emeritus di storia moderna a Oxford, uno dei più autorevoli storici viventi, compendia la sua ponderosa ricerca sugli Imperi dell’Atlantico. America britannica e America spagnola, 1492-1830, pubblicata nel 2006, che la casa editrice Einaudi manda oggi in libreria nella sua traduzione italiana.
Il libro propone un confronto tra il colonialismo spagnolo e quello inglese nelle Americhe, ossia tra i due modelli imperiali più significativi dell’Europa moderna. Un viaggio parallelo che incomincia con la scoperta dei rispettivi "Nuovi mondi" da parte di un astuto notaio dell’Estremadura come Hernán Cortés nel 1519 e di un ex corsaro monco di un braccio di nome Christopher Newport nel 1606 e si conclude con il racconto del progressivo, ma inesorabile sfaldamento dei due sistemi imperiali. Anche in questo caso gli esiti sono differenziati sul piano cronologico, ma a parti invertite: precoci nel nord con la proclamazione dell’indipendenza degli Stati Uniti nel 1776 e più tardivi nel sud grazie all’onda lunga della Rivoluzione francese e all’influenza dei primi movimenti risorgimentali europei.
Due imperi allo specchio, l’uno davanti all’altro. L’America spagnola riflette una struttura centralizzata e burocratica del potere con stretti legami di dipendenza con la corona e un investimento statuale energico che, accanto all’uniformità linguistica, impone una solida omogeneità religiosa im-perniata sul cattolicesimo. Il dominio imperiale è influenzato dall’alto grado di urbanizzazione incontrato, dall’elevata presenza demografica autoctona, dalla difficoltà di spostarsi agevolmente a causa di una natura e di un territorio ostili e soprattutto dalla scoperta di ingenti giacimenti minerari in grado di garantire, per oltre tre secoli, non solo l’autosufficienza economica delle colonie, ma anche il finanziamento bellico e l’alto livello dei consumi dell’aristocrazia spagnola nella madrepatria.
L’America britannica, invece, rispecchia una struttura più aperta e flessibile, priva di una strategia di dominio organizzata: un «impero che esisteva solo nella fantasia » come notato dall’economista Adam Smith. Lo scarso numero di indigeni e l’assenza di una cultura urbana preesistente favorisce lo sviluppo del mito della frontiera così come la presenza di numerosi fiumi navigabili facilita gli spostamenti e i commerci via terra. L’assenza di ricchezze nel sottosuolo (l’utilità dei giacimenti di petrolio del Texas o dell’Alaska era ancora di là da venire) e la fertilità del terreno agevolano l’espansione di un’economia agricola imperniata sul cotone e sul tabacco. Tuttavia, rispetto alla Spagna, i costi sostenuti dall’Inghilterra nella difesa e nel mantenimento delle colonie sono maggiori dei benefici ottenuti. Sul piano religioso non si ha l’affermazione di una sola confessione, ma la diffusione di un mosaico di minoranze protestanti in fuga dall’Europa che per convivere sono obbligate alla tolleranza reciproca. Una condizione di pluralismo che ha favorito l’irradiamento di una cultura politica incentrata sui principi del consenso rappresentativo e della inviolabilità dei diritti individuali. Se le due potenze europee appaiono divise in tutto, non lo sono però nel considerare quegli immensi territori come uno spazio sacro e provvidenziale, assegnato loro per diritto romano e divino, al prezzo di massacrare gli abitanti locali e di fare uso e abuso di milioni di africani deportati in America come schiavi e forza lavoro praticamente gratuita.
Il libro di Elliott si inserisce nella migliore tradizione della storiografia europea del secolo scorso, ideale prolungamento geografico, temporale e tematico della insuperata ricerca di Fernand Braudel su Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II. lo stesso studioso inglese a riconoscere il suo debito di riconoscenza verso quell’ormai lontana stagione storiografica, culturale e civile, caratterizzata dalla «necessità di liberarsi delle barriere imposte dalle categorie rigidamente definite della storia politica, sociale ed economica, e di studiare, invece, le connessioni, talvolta evidenti, talvolta nascoste, tra le molteplici correnti che, tutte insieme, tessono la rete di una civiltà. L’histoire totale, ahimè, non sarà mai scritta compiutamente: rimane, tuttavia, l’aspirazione più nobile per ogni storico».
Dell’impresa diElliott non interessa solo il tema scelto, ma soprattutto la vertigine dei problemi che affronta: l’avere accettato e vinto la sfida comparatista, fornendo un esempio notevolissimo della fecondità di un metodo che tanti evocano,ma pochi possono e sanno praticare con l’acribia e la leggiadria dello storico inglese. In effetti, per azzardarsi a comparare due realtà bisognerebbe dapprima conoscerle nella loro intima singolarità e non limitatamente ai punti di interconnessione giacché «l’autentica storia comparata si deve occupare delle similitudini come delle differenze»; e non è mai un discorso sulle identità, inevitabilmente ideologico, psicologico o memorialistico, ma sul loro trasformarsi dinamico, intrecciato, relazionale, in una sola parola, storico. Elliott accetta e vince anche una seconda sfida che lo rende originale rispetto allo spirito dominante del tempo e perciò tendenzialmente fecondo: sceglie una cronologia lunga e uno spazio dilatato in un’età, la nostra, in cui tutte le discipline, non solo la storia, si definiscono in quanto specialismo, col rischio di smarrire il senso del movimento globale, il respiro e il ritmo di un corpo culturale preso nel suo insieme, dentro un contesto che è anzitutto un fascio di rapporti di forza e di condizioni date sul piano climatico, demografico, antropologico, economico, energetico, materiale.
Dal predominio di questa tendenza scaturiscono gli idola pedagogici di oggidì dell’interdisciplinarietà e dei collegamenti che sempre più rischiano di mettere in relazione due diverse forme di fragilità o, nei casi peggiori, di ignoranza, che sarebbe come pretendere di costruire un ponte senza i pilastri. In questo libro, invece, di cemento armato ce n’è in abbondanza: si parla di impero spagnolo con la competenza di chi ha dedicato un’intera vita a studiare la monarchia asburgica non fuori dall’Europa ma dentro lo scacchiere continentale; ma si parla anche di impero inglese perché a quelle conoscenze magistrali Elliott ha avuto l’umiltà di aggiungere una quindicina di anni di nuove ricerche suimeccanismi di funzionamento dell’America britannica così da poter possedere i requisiti per comparare i due imperi entro un contesto atlantico. L’opera si contraddistingue per uno stile di scrittura chiaro e rigoroso in cui si combinano l’investigazione in profondità con il piacere della narrazione: si tratta di un pregio raro che rende il libro di gradevole lettura, nonostante la mole e l’erudizione. Tra i suoi meriti principali c’è quello di spiegare come la cosiddetta globalizzazione non sia nata nel Novecento, ma abbia robuste radici nei meccanismi di funzionamento dell’economia mondiale in età moderna sul piano culturale, commerciale ed energetico: l’argento estratto dalla Spagna in sud America arrivava in Europa da dove viaggiava verso l’Asia condizionando, già allora, il mercato a livello internazionale, per non parlare delle rotte commerciali transoceaniche o del mercato triangolare degli schiavi. In questo modo la storia della colonizzazione e degli imperiamericani si trasforma anche in un originale affresco in controluce dell’Europa moderna, delle sue capacità di espansione militare e politica e di proiezione ideale e culturale verso l’esterno.
La fisarmonica comparatista di Elliott suona una melodia dolce e stridente al tempo, quella che accompagna da sempre l’incontro e lo scontro fra gli uomini, l’indifferenza, il pugno e la carezza dei nostri scambi: per questa ragione ci auguriamo che possa essere ascoltata da chi si appresta ad attraversare oggi l’Atlantico – al nord o al sud, per turismo o per lavoro non importa – ma anche da quanti amano spostarsi con la mente e con il cuore grazie alla lettura: la storia, la buona storia, infatti, è sempre musica e viaggio.