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 2010  febbraio 14 Domenica calendario

LA LUCE DI ROMA NELLA MIA MUSICA

«In Westfalia, dove sono nato, la luce è di una malinconia silenziosa» dice Hans Werner Henze, il compositore più eseguito al mondo. «A Gütersloh, dove sono nato 84 anni fa, la gente era austera, avvolta in impermeabili grigi, gli ombrelli sempre pronti, gli sguardi come se dovessero andare dall’ esattore delle tasse. Ma qui, ai Castelli Romani, dove Goethe trascorse un autunno perdendosi nell’ amore di una ragazza, c’ è un chiarore abbagliante che non ho visto in nessun altro luogo. tutta un’ altra luce, produce un altro pensiero, un’ altra musica». Henze venne in Italia nel 1953 e non se ne andò più. «Lasciata la Germania, mi sono detto: esisteva dunque un mondo migliore!». Brevi soggiorni a Ischia e a Roma, dove fu accolto alla corte di Visconti: «Incarnava lo charme, volendo, poteva essere molto violento e aggressivo, era circondato da gente piena di splendore e arroganza, mi sentivo fuori posto»; frequentò Elsa Morante: «Era il mio punto di riferimento, coi suoi begli occhi miopi che tradivano i sentimenti, musicai una sua poesia d’ amore, Alibi, purtroppo litigammo e lei era radicale in questi "divorzi"»; conobbe Stravinskij: «Nel ’ 54, l’ anno dello scandalo di Boulevard Solitude all’ Opera di Roma, il pubblico disturbò sistematicamente il mio spettacolo. Igor andò alla prima senza smoking, puzzava di naftalina. Le maschere non lo fecero entrare. Ricevette un mazzo di fiori dal ministro della Cultura. Era un uomo dolce, anche nella voce aveva il vibrato russo. Mi chiese cosa pensavo della musica seriale, era preoccupato che prendesse piede. «Vivere in città era impossibile, il caos, il rumore. Il Caffé Greco era diventato come una casa, ma non riuscivo a concentrarmi sulla musica». Tre anni dopo scoprì Marino ed è ancora lì, in una splendida magione che si chiama La leprara, perché fino al ’ 700 in quella collina le lepri venivano allevate e poi, «quando erano cresciute, liberate per essere cacciate con arco e freccia». Henze è stanco e malato, infila molto lentamente una parola dopo l’ altra, è difficile capire quando ha terminato le sue pause. Ciò non toglie che, a mezzogiorno, prenda un Martini extradry che a quell’ ora stenderebbe un irlandese al pub. Cinque anni fa cadde in coma. Uscì dal grande sonno senza un giorno in ospedale. «Fausto sapeva che ero allergico alle strutture sanitarie». Questa è una storia incredibile. Fausto Moroni è stato il suo factotum e il compagno di una vita, 45 anni insieme. Nei giorni del coma, Fausto aveva già comprato 80 rose, stampato i manifesti per il funerale ateo del maestro, la tomba pronta col tulle, scelto il vestito, le scarpe. Un giorno Henze si risveglia: «Quando ho riaperto gli occhi mi sono detto, quant’ è bella l’ Italia! Il primo ricordo era legato all’ olfatto, il profumo del pane tostato. Poi ho voluto fare il giro della mia casa». Due anni dopo, il 14 aprile 2007, Fausto morì, conseguenza di una depressione. Aveva 63 anni. Henze gli ha dedicato un pezzo, Elogium musicum, che dopo il Maggio Musicale Fiorentino ha appena riproposto a Londra nella maratona di due giorni che gli ha dedicato il Festival della Bbc. Sul frontespizio si legge: «A un amico carissimo ma ora lontano». Nel soggiorno, accanto ai quadri di Vespignani e di Vacchi (il padre del compositore Fabio Vacchi), agli arazzi e ai due pianoforti Steinway, ecco la foto di Fausto e quella della scrittrice Ingeborg Bachmann con cui ha creato tre brani: «La prima volta che la vidi, leggeva le sue poesie esprimendo immagini e idee in modo estremamente timido, quasi sussurrando a se stessa. Aveva sei giorni più di me, ma la sua conoscenza del mondo, delle persone e dell’ arte era così superiore alla mia che poteva avere 2.000 anni più di me!». Un lampo negli occhi verdi, diventati due fessure, Henze non vuol farsi travolgere dai ricordi. Ci invita a vedere uno spettacolo insolito: il suo giardino dell’ Eden. abitato da 83 ulivi secolari, alberi da frutta, l’ orto da cui prende tutto quello di cui ha bisogno un vegetariano come lui. Il profilo di Roma si staglia a sinistra, lì dove svetta una bandiera con al centro un uccello: l’ upupa. il titolo della sua opera che ha trionfato al Festival di Salisburgo. Più recentemente, a Roma ha colto un altro successo rotondo («Francamente non me lo aspettavo») col direttore Antonio Pappano e l’ Accademia di Santa Cecilia, che gli ha commissionato un’ opera, Opfergang (Immolazione), immersa in un clima postespressionista: « la prima commissione in 50 anni, da quando vivo in Italia. Se me l’ avessero chiesto prima, avrei accettato» dice con humour. Tratta dal poemetto di Franz Werfel (1913), è la storia di un uomo in fuga, violento, braccato dalla polizia, e di un cane ben curato, portato in scena dal tenore Ian Bostridge. Oggi assapora il successo di musica con solide radici nel sinfonismo tedesco, né tradizionalista né innovativa, non riesce a immaginarla lontana da una visione teatrale; una musica che possiede, come diceva Massimo Mila, una disperata volontà di comunicare. Ma il suo percorso d’ artista fu punteggiato da nemici agguerriti, all’ epoca dei furori ideologici della scuola di Darmstadt che lui frequentò nel ’ 55 per condurre con Boulez e Maderna un corso di composizione. Un’ esperienza devastante, la sua musica derisa perché dava emozione. «I giovani che scrivevano musica con un linguaggio antecedente a quello di Webern non venivano nemmeno ammessi. Mi resi conto di quanto fossi distante dalla scena musicale tedesca. Chi scriveva in do maggiore veniva radiato. Il direttore Hermann Scherchen, mentre preparavamo König Hirsch, mi disse: "Nessuno scrive più arie, veicolano le emozioni". Adorno, il filosofo e musicologo, diceva che la mia musica era bella ma troppo ordinata. La musica per lui doveva essere caotica. Io dico che è caotica quando è scritta male. Berio non era comunicativo con i colleghi, con Stockhausen e Boulez era uno dei miei nemici, ma ho anche dei ricordi non antipatici di lui». Lei fu comunista. «Mai stato uno stalinista, ma le idee sono quelle. Trovavo che corrispondesse ai miei sentimenti, mi sembrava la risposta migliore alla cultura e alla società. Oggi seguo poco la politica, dovrei vergognarmi». L’ adesione al comunismo fu una reazione a suo padre? «Sì. Una vendetta. Era maestro elementare. Suonava la fisarmonica ai matrimoni. Ricordo come, a causa del clima intimidatorio, fu indotto a diventare nazista, abbandonando le sue idee. Quando nel ’ 34 nacque mio fratello Jochen, andò a acquistare biancheria per neonati. Il giorno dopo apparve la sua foto sul giornale con la scritta: "Quest’ uomo compra da ebrei". Doveva riabilitarsi. Non sapevamo niente di lui, del suo passato, non ci raccontava nulla. Un giorno scrisse dal fronte a mia madre: se nostro figlio sarà una vittima di guerra, lo considererò un onore». La Westfalia un tempo apparteneva alla Prussia, disciplina, militarismo, senso del dovere. «Tutte cose interiorizzate nella mia famiglia. Il senso etico me lo porto dietro, credo che un artista moderno debba occuparsi dei problemi della società, un musicista deve aprire il cuore per renderci migliori. In Germania torno per rivedere la tomba di mia madre. Una donna dolce che si limitava a sospirare, come le donne del tempo. Era dattilografa. Veniva dalla classe operaia, suo padre era minatore». Maestro, si considera un solitario che cerca il piacere del suono? «Penso di sì, una volta i compositori erano artigiani, come i falegnami o i sarti. Dovremmo anche noi guadagnarci il pane col nostro lavoro». Vede compositori che raccoglieranno il suo testimone? «Direi Wolfgang Rihm, George Benjamin, Harrison Birtwistle. Ma non vorrei offendere qualcuno se non lo menziono».
Valerio Cappelli