Lorenzo Cremonesi, Corriere della Sera 14/02/2010 Guido Olimpio, Corriere della Sera 14/02/2010, 14 febbraio 2010
2 articoli - LA NUOVA STRATEGIA: COLPISCI E RESTA - L’ importante non sarà la battaglia, ma la capacità di controllare il territorio
2 articoli - LA NUOVA STRATEGIA: COLPISCI E RESTA - L’ importante non sarà la battaglia, ma la capacità di controllare il territorio. Quasi certamente, nella migliore tradizione della guerra asimmetrica, i talebani eviteranno di impegnarsi in scontri frontali con la forza di spedizione a guida anglo-americana che in queste ore sta lanciando l’ offensiva più importante. I comandi alleati lo sanno bene. E per questo da almeno due settimane hanno annunciato pubblicamente l’ imminenza dell’ attacco nella provincia di Helmand. Un controsenso, se avessero puntato ad eliminare il massimo numero di insorti possibile. Ma il loro obiettivo mira soprattutto a rassicurare la popolazione. Si usano metodologie militari per coinvolgere i civili residenti nelle roccaforti tradizionali talebane nel progetto di costruzione del futuro Afghanistan. I comandi Nato-Usa a Kabul continuano a ripeterlo: «Abbiamo già pronti oltre 1.500 tra esperti e amministratori per il governo delle zone liberate dalla guerriglia attorno alla regione di Marja». Lo hanno ribadito anche ai 350 capi tribali locali riuniti nelle ultime ore in preparazione dell’ attacco. una filosofia totalmente diversa da quella che accompagnò l’ attacco contro il Paese dei talebani nell’ ottobre 2001 e poi l’ invasione dell’ Iraq di Saddam Hussein nel marzo di due anni dopo. Allora, come fu evidente già subito dopo il cessare degli spari, l’ amministrazione Bush si era concentrata sugli aspetti bellici, senza quasi considerare come organizzare la transizione dalla guerra alla pace. Oggi l’ idea dominante è che non ha senso avviare le ostilità se non si è prima affrontata la pianificazione del dopoguerra, o comunque la gestione delle popolazioni coinvolte. Una lezione appresa a costi terribili: le disfatte in Iraq, il terrorismo, i massacri infiniti di civili, i circa 4.000 soldati americani uccisi laggiù, gli oltre 10.000 feriti gravi, i quasi 1.640 morti della coalizione Nato-Isaf in Afghanistan (di cui almeno 1.000 americani), i gravi contrasti interni cresciuti nella stessa coalizione alleata, con il governo di Baghdad e con Hamid Karzai. Soprattutto il senso di scoramento, l’ impotenza, le frustrazioni della massima potenza mondiale che mirava a sconfiggere il terrorismo islamico sul Pianeta dopo l’ offesa in casa del 11 settembre 2001 e si è invece trovata imbrigliata nella palude di conflitti senza fine. Al cuore del profondo cambiamento delle strategie militari americane stanno al momento due uomini chiave: David Petraeus, il generale di Bush che ideò il surge contro Al Qaeda e la guerriglia in Iraq, oggi al comando delle truppe Usa per il Medio Oriente allargato, e Stanley McChrystal, che dirige la coalizione alleata in Afghanistan. Fu Petraeus nel 2007 a volere l’ aumento delle truppe Usa in Iraq. La sua strategia si fondava certamente sui volumi letti a West Point relativi al conflitto in Vietnam. Ma soprattutto due episodi della sua esperienza di ufficiale maturata direttamente nel teatro iracheno lo avevano convinto della necessità di voltare pagina. La prima fu nel 2004 durante la battaglia di Falluja, la grande città sunnita posta una settantina di chilometri a ovest di Baghdad. Non a caso, lanciando ieri le truppe verso le periferie della cittadina di Marja, lo stesso McChrystal si è prodigato a rassicurare i reporter. «Qui nulla sarà come a Falluja. Staremo ben attenti a non colpire i civili», ha ribadito. Allora le polemiche sull’ uso di bombe al fosforo, sul numero dei civili morti (si parlò di oltre 5.000) e sul prolungarsi dei combattimenti segnarono uno dei momenti più gravi dello sforzo bellico americano. I comandi Usa parlarono di «almeno 1.350 guerriglieri uccisi». Le agenzie non governative aggiunsero che oltre 40.000 abitazioni erano state danneggiate (la metà di tutta la città) e 10.000 rase al suolo. Il fatto più grave fu comunque che subito dopo la fine dei combattimenti, tra aprile e maggio, i gruppi baathisti e qaedisti tornarono a controllare il centro. A luglio la città restava off limits. E fu necessario riprendere la battaglia per quasi tutto novembre. I morti americani furono oltre 100, quelli tra i militari del nuovo esercito iracheno mai resi noti con chiarezza. Il secondo precedente iracheno fu a Tel Afar. una cittadina dominata da sunniti e turcomanni situata a una quarantina di chilometri dal confine con la Siria e proprio per questo utilizzata come centro logistico della guerriglia. Una prima massiccia offensiva fu lanciata dagli americani nel settembre 2004. Pure, già nel maggio 2005 fu necessario tornare a occuparla in forze dopo sanguinose battaglie. La svolta avvenne nel settembre dello stesso anno, quando i comandi Usa organizzarono l’ operazione «Restoring Rights» sulla base di tre principi che dominano oggi l’ attacco in Helmand: «clear, hold, build», che possono essere tradotti come «eliminare la guerriglia, mantenere il controllo del territorio e intanto costruire il nuovo futuro della regione». Nel marzo 2006 Bush intervenne pubblicamente per celebrare il «successo di Tel Afar» quale modello della nuova strategia americana in Iraq. E su quel precedente Petraeus pochi mesi dopo annunciò i principi del suo surge. «Non basta combattere questi nemici. La guerriglia va sradicata dal suo territorio. Occorre che i nostri soldati restino sul posto assieme a quelli dell’ esercito locale», disse allora Petraeus da Baghdad, come del resto ribadiva McChrystal da Kabul nel documento che lo scorso agosto chiedeva a Obama la luce verde per l’ invio di oltre 30 mila soldati di rinforzo al contingente americano in Afghanistan. Petraeus nel marzo 2007 utilizzò i rinforzi per costruire le Joint Security Station (Jss), le basi diffuse capillarmente nel cuore dell’ Iraq e presidiate spalla a spalla da soldati iracheni e americani. Inizialmente lo sparpagliare delle truppe in piccoli contingenti dispersi provocò un’ impennata nel numero delle vittime. Tra aprile e giugno la lista delle bare tornate a casa avvolte nella bandiera a stelle strisce raggiunse picchi impressionanti. Ma a fine estate la strategia iniziò a funzionare, vennero creati i «consigli del risveglio» composti da capi tribali sunniti disposti a lottare contro la violenza di Al Qaeda. E furono loro a offrire i giovani per le milizie di autodifesa, pagate a suon di dollari da Washington, pronte a collaborare con le truppe americane. Una formula simile si vorrebbe utilizzare adesso in Afghanistan. Il 2 di luglio scorso 570 Marines, per lo più del Secondo Battaglione Motorizzato, hanno fondato sette fortini permanenti lungo gli oltre 300 chilometri del fiume Helmand. A Khan Neshim, il più meridionale, circa 200 soldati sono acquartierati fianco a fianco alle truppe afghane. Qui è situato anche un importante centro di controllo per gli aerei senza pilota Usa che operano in Pakistan, specie nel Baluchistan, 60 chilometri più a sud, dove si trovano alcuni tra i più importanti comandi talebani. Lorenzo Cremonesi MCCHRYSTAL E LA SUA «SQUADRA DEI 400» - Quando il generale Stanley McChrystal ha assunto il comando delle operazioni in Afghanistan ha posto una condizione: voglio un team di 400 tra ufficiali e soldati. Una squadra che deve ruotare tra il Pentagono e la zona di operazioni nell’ arco di tre anni. Un pacchetto di mischia, dove sono stati arruolati anche dei civili, per affrontare il binomio talebani-qaedisti. Nel scegliere gli uomini McChristal ha guardato al suo recente passato e al suo dna militare. Dunque in molti sono stati prelevati dalle «Special Forces», da quelle unità che hanno inflitto perdite pesanti agli insorti iracheni. Ne è la prova il numero due di McChristal: il generale David Rodriguez, ufficiale che ha servito sia a Bagdad che Kabul ma che soprattutto conosce il «capo» da 30 anni. I due sono stati insieme nei Ranger come giovani capitani. Un altro generale, Michael T. Flynn, ha assunto la guida dell’ intelligence. Ruolo delicato. Il Pentagono ha certamente migliorato il livello di informazione sul campo. Così come ha lavorato per coinvolgere maggiormente le autorità afghane. A gestire questa fase Scott Miller, un generale che ha militato a lungo nelle forze speciali e ha già lavorato con McChristal. Non diverso il profilo del vice ammiraglio Gregory Smith. Responsabile del dipartimento comunicazioni e informazione in Iraq, doveva andare in pensione ma gli hanno chiesto di «allungare» per ricoprire la stessa funzione a Kabul. McChristal ha poi ingaggiato una sua vecchia conoscenza, il generale britannico Graeme Lamb, ex comandante dei Sas, i super commandos di Sua Maestà. Si sono incontrati in un ristorante messicano di Arlington, vicino a Washington. Tra forchettate di fagioli e gustosi burritos hanno fatto in fretta a capirsi. Insieme ai collaboratori in divisa, il comandante conta su «consiglieri speciali» civili. Persone che in questi mesi sono state molto ascoltate nell’ elaborazione di un piano che ha due capisaldi. Il bastone: l’ uccisione o neutralizzazione di un gran numero di leader ribelli in Afghanistan e Pakistan. La carota: il sostegno alla popolazione unito ad una maggiore partecipazione degli afghani. I «borghesi» di McChristal hanno origini diverse. Ci sono Fred Kagan dell’ American Enterprise Institute e la moglie Kimberly, responsabile dell’ Istitute for the Study of War. Sempre dai think tank provengono Anthony Cordesman, prolifico autore di ricerche e report, e Stephen Biddle. Con grande seguito e ritenuto tra i migliori specialisti della controguerriglia è Andrew Exum. Dopo aver prestato servizio nei Ranger - e dove sennò - si è trasformato in consulente. Un gradino più sotto Jeremy Shapiro della Brookings Institution, Terry Kelly della Rand, Catherine Dale del Centro studi del Congresso. A tutti McChristal ha ripetuto il messaggio-chiave: non ci possiamo permettere degli errori perché il tempo a nostra disposizione sta scadendo. Guido Olimpio