Barbara Romano, Libero 14/2/2010, 14 febbraio 2010
«DA GIOVANE FINI ERA UN DURO IN CRAVATTA AFFRONTAVAMO I ”ROSSI”»
Marcello e Nazareno. Inseparabili, come sempre. Vengono assieme ad aprire la porta. Marcello, in pigiama e ciabatte. ”Nanna” con una matrioska di cubi colorati. Ma se mezzo secolo fa li separava circa un anno, oggi tra loro scorre una generazione. Già, perché Nazareno non è il fratello, ma il figlio di Marcello De Angelis, classe 1960, cofondatore del movimento di estrema destra Terza posizione negli anni Settanta e oggi deputato del Pdl. «Ha gli stessi occhi di suo zio, sono due gocce d’acqua», fa notare Marcello mostrando la foto della sua Prima comunione col fratello ”Nanni”, che si spense nel 1980, nel carcere di Rebibbia, dopo essere stato pestato dalla polizia. Il discorso, con Marcello, finisce sempre inevitabilmente su Nanni. l’eterno destino dei De Angelis: si chiama Nazareno anche il suo primo figlio, nato 29 anni fa, pochi mesi
dopo la morte dello zio...
Laprimavoltacheèentratoinunasezione di partito?
«Era l’ottobre del 1973. Avevo 13 anni quando misi piede della sede del Msi di viale Rossini, ai Parioli. Mi iscrissi assieme a mio fratello Nazareno, che già faceva po-
litica al liceo».
Anche la sua militanza cominciò al liceo.
«Allo scientifico Azzarita, una scuola con una forte presenza di sinistra. Che però stava accanto a piazzale delle Muse, nel quale i ”compagni” non entravano nemmeno. Gli scontri erano all’ordine del giorno. Tant’è che io venni bocciato al primo anno e andai al Mameli, che era un liceo classico, dove rimasi fino al ”77, quando presi 7 in condotta e il preside consigliò a mia madre di farmi
cambiare scuola».
Che altro aveva combinato?
«Ero un elemento di disturbo in una scuola di sinistra. Bastava che attaccassi un manifesto per generare la rissa». Quando avvenne il ”battesimo della spranga”? «Nel 1974. Con mio fratello e altri tre facemmo
’sega” a scuola per andare a difendere Sommacampagna, la sede centrale del Fronte della gioventù. Ci fu un assalto del movimento studentesco. Noi ci asserragliammo dentro la sezione, si scatenò una sassaiola e poi la polizia ci caricò». Il suo percorso sarebbe stato lo stesso se non fosse sta-
to il fratello di Nazareno De Angelis?
«Sicuramente sì. Io e Nanni abbiamo fatto tutto insieme: l’asilo, le elementari, gli scout. I nostri percorsi erano paralleli, ma avevamo due personalità differenti. Il più politicizzato ero io».
Il ricordo che le è rimasto più impresso della vostra adolescenza? «Sulla via Cassia c’era una casa abbandonata dove un barbone aveva impiccato delle bambole. Per Nanni era una sfida irresistibile andare lì di notte. Io non ci pensavo nemmeno. Ma lui partiva comunque da solo e tu non potevi non seguirlo. Soprattutto quando si lanciava a fronteggiare qualcuno, perché così, se c’era da prendere botte, almeno un po’ me le prendevo io».
Fu per ribellione contro la vostra famiglia pariolina che sceglieste la via dell’eversione? «No, io e Nanni eravamo figli di quegli anni duri in cui non potevi non prendere posizione. E poi i miei non erano assolutamente pariolini».
Non abitavate ai Parioli?
«Sì, ma i miei genitori sono persone semplicissime. Mio padre era uno scenografo Rai, un grande lavoratore, faceva sempre gli straordinari. Mia madre era un’insegnante. Si conobbero all’Accademia delle Belle Arti e non avevano particolare interesse per la politica. Mamma per un periodo votò addirittura per i radicali».
E da dove sono usciti due figli camerati?
«Mio fratello fu iniziato al fascismo alle elementari, per gioco, dal figlio di un falegname che era patito del Duce». Come nacque l’idea eversiva di Terza posizione?
«Io e mio fratello uscimmo quasi subito dal Msi perché non ci sentivamo a nostro agio con le posizioni di quelli più grandi. Ed entrammo in un coordinamento liceale: Lotta studentesca. Ma il nostro non era affatto un disegno eversivo. Per noi era un percorso di restaurazione del diritto della patria e della legittimità della nazione. Eversivi erano gli altri, quelli di sinistra e quelli che stavano al potere. Non noi».
Il simbolo di Terza posizione era una runa nazista.
«Per noi quei simboli rappresentavano un folclore magico, pagano. Ma il nazismo non c’entrava niente». Terzaposizioneinneggiavaallalottaarmataeallaforma di Stato neofascista.
«Non è assolutamente vero. Da parte nostra c’era un rifiuto tale del neofascismo che se qualcuno faceva un saluto romano veniva espulso». Rivendica o rinnega l’esperienza di Terza posizione? «La rivendico, perché è stata molto formativa e avevamo avuto delle intuizioni esatte su tutto. Il riferimento alla lotta armata nell’inno era un estremismo verbale che si riferiva alla lotta di liberazione nazionale dei montoneros, dei sandinisti, dei palestinesi e degli irlandesi. In Italia, quando abbiamo incrociato quelli che la lotta armata la facevano sul serio, nel mirino ci siamo finiti noi».
Mai avuto in casa busti o santini del Duce?
«No. Mia sorella aveva in camera il poster del ”Che” e io la foto di Emiliano Zapata».
Non sarà un caso se si è sposato nel giorno dell’anniversario della morte di Mussolini. «E invece è stato un caso, perché il 28 aprile era l’unico giorno disponibile nella chiesa che avevamo scelto». Suo fratello morì impiccato nel carcere di Rebibbia, il 5 ottobre 1980, dopo essere stato pestato dai poliziotti. Secondo lei cosa accadde veramente?
«Ci sono un’infinità di ragioni per ritenere che sia stato quantomeno un suicidio assistito». Cosa intende per «suicidio assistito»? «Potrebbero essersi resi conto che stava morendo per le percosse subite e per le mancate cure, e può darsi che abbiano inscenato un suicidio per non assumersi la responsabilità. la teoria emersa dall’esame medico. Ma quando, contattato di recente da uno dei medici, ho avuto l’opportunità di approfondire le cose, all’appuntamento non sono andato».
Perché?
«Perché ho preferito staccare la spina. Se trovassi la prova che mio fratello è stato ucciso, cosa dovrei fare, andare dai miei genitori ottantenni e riaprire una ferita che non ha mai smesso di sanguinare?».
Non è per fare chiarezza sulla morte di suo fratello che decideste di dissotterrarlo anni dopo? «No, la salma fu ”trafugata” per essere bruciata, perché erano le sue ultime volontà. Con Nanni, da bambini, vedemmo il film ”Beau geste”, dove c’erano tre fratelli che si erano scambiati la promessa che, in caso di morte, quello che fosse sopravvissuto avrebbe fatto all’altro un funerale vichingo». Si commuove. «Tutti sapevano che anche lui avrebbe voluto essere bruciato piuttosto che, come diceva lui, ”stare chiuso in una scatola sotto terra per l’eternità”. Nella vita si dicono tante cose, ma lui è morto in un’epoca in cui gli amici mantenevano ancora le promesse».
Perché non lo faceste cremare subito?
«Quando lui morì io ero già ricercato e comunque trent’anni fa la cremazione era una prassi complicata. Mia madre scelse di celebrare il funerale in Abruzzo, perché la morte di Nanni aveva provocato un’ondata emotiva straordinaria e temeva che il suo funerale a Roma avrebbe scatenato scontri dagli esiti funesti».
E pochi mesi dopo la morte di suo fratello nacque il suo primo figlio. «Sì, a gennaio 1981: Luca Nazareno. Sua madre, che era una mia compagna di liceo, voleva chiamarlo Luca, ma ci aggiunse ”Nazareno”, perché era molto legata a mio fratello».
Lei dove si trovava quando nacque?
«Io ero in Francia, sua madre a Rebibbia. Venne arrestata a 19 anni, al quinto mese di gravidanza, solo perché era la mia fidanzata. Per un pelo non presero anche me, perché mi aveva chiesto di dormire da lei la sera in cui la Digos venne a bussare alla sua porta, ma io avevo fiutato il pericolo e rifiutai. Provai anche a convincere lei a dormire fuori casa dicendole che la polizia ci stava cercando, ma non mi credette. Dopo la nascita del bambino venne liberata senza nessuna accusa, ma dopo averla fatta partorire sotto scorta. Una mostruosità».
Che rapporto ha con il suo primo figlio?
«Ottimo. Anche se non l’ho conosciuto fino ai suoi 13 anni, perché, appena sua madre uscì dal carcere, suo padre la mandò negli Stati Uniti e lì si è sposata. Con lui ci sentiamo un paio di volte l’anno. Tra noi parliamo solo in inglese. Poi, un anno e mezzo fa, è nato Nazareno, il mio secondo figlio».
Perché ha chiamato tutti i suoi figli come suo fratello? «Si fa nelle famiglie per riempire i vuoti». E se un giorno uno di loro intraprendesse un percorso eversivo lei che farebbe?
«Se volessero fare politica non mi opporrei. Ma se decidessero di imbarcarsi in qualcosa di molto pericoloso, cercherei di impedirglielo. Lo farei anche se volessero fare bungee jumping».
Dopo aver cercato rifugio in Francia, lei andò a Londra per avvertire alcuni suoi amici latitanti che stavanoperesserearrestati,efinìnelcarceredimassimasicurezza di Brixton. Lo rifarebbe?
«Certo. Se loro mi avessero ascoltato ce ne saremmo andati tutti prima e nessuno di noi sarebbe stato arrestato. Ma forse è stata una salvezza. Se non mi avessero messo dentro, sarei tornato in Italia e sarei rimasto coinvolto in cose più pericolose, che avrebbero cambiato il corso della mia esistenza».
Com’era la vita da galeotto in un carcere di massima sicurezza? «Interessante e formativa. Ho conosciuto le persone più strane e alla fine, stando in isolamento a leggere e scrivere venti ore al giorno, ho conosciuto anche me stesso».
Cosa le è rimasto della sua latitanza a Londra?
«Non ho mai vissuto quei dieci anni come una latitanza, perché io non ero un ricercato».
In Italia era stato condannato per banda armata.
«Sì, ma le autorità inglesi avevano giudicato gli elementi in base ai quali mi avevano condannato totalmente insufficienti. Quindi per loro ero un ragazzo normale».
Di cosa viveva a Londra?
«Avevo cominciato lavando i piatti nei ristoranti. Poi, grazie all’esperienza fatta all’Istituto di design che avevo frequentato per un anno prima di lasciare l’Italia, ho iniziato a lavorare come impaginatore in un settimanale. Ho lavorato in una casa editrice, dove mi fidanzai con la vicedirettrice, che era mia coetanea. E sono anche finito in una società di public and political relations, specializzata in attività lobbistica».
Quando stava in Italia aveva scritto delle canzoni. Che impressione le ha fatto, tornando, scoprire che erano diventate un cult? «Mi ha provocato emozione, incredulità e anche un po’ d’imbarazzo».
Nel 1993 ha fondato un gruppo, ”270 bis”, come l’articolo del codice penale contro l’associazionismo terroristico e eversivo di cui era stato accusato. Cos’era, la continuazione della lotta armata con altri mezzi? «Al contrario, era una scelta autoironica».
Di che parlano le canzoni dei ”270” bis?
«Alcune sono le mie vecchie canzoni, altro sono nuove. Sono goliardiche e a sfondo politico. Ma prevalentemente intimistiche». A 20 anni era un rivoluzionario e a 50 fa il parlamentare. Non sente di aver tradito i suoi ideali? «Assolutamente no, ho fatto quello che un ventenne faceva negli anni Settanta e oggi quello che fa un cinquantenne in un clima completamente diverso. Ma gli ideali sono gli stessi».
Il clima di odio di questi anni è paragonabile a quello degli anni di piombo? «No. Oggi sono alcuni giornali a seminarlo, ma non trova un clima fertile in cui deflagrare. Negli anni Settanta l’odio si respirava nell’aria, bastava un articolo di Umberto Eco a far sentire qualcuno legittimato a compiere un attentato».
A quei tempi lei era un rivale di Gianni Alemanno. Vent’anni dopo è diventato direttore di Area, il mensile della sua corrente. Alemanno ha addirittura officiato il suo matrimonio il giorno che è diventato sindaco. Oggi come sono i vostri rapporti?
«Gianni è più di un fratello per me. Ho condiviso più cose con lui che con i miei quattro fratelli. Quando ci sono state divergenze, ho rivendicato la mia indipendenza, e penso che questo aiuti a rispettarsi di più». Con Gianfranco Fini vi conoscevate negli anni ”70? «Lo conobbi nel 1975 a Sommacampagna, ma c’era molta differenza d’età. Mi colpì per il suo fortissimo accento bolognese e per il suo completo grigio con la cravatta. Andai con lui ad attaccare i manifesti di un comizio di Almirante, assieme a un mio compagno di liceo, al capolinea degli autobus vicino la stazione Termini. Trovammo un capannello di autisti nerboruti di sinistra che iniziarono a prenderci in giro».
I nemici di Fini dicono che in questi casi non si facesse notare per il suo coraggio. «E invece Fini fece il duro. Davanti a loro disse al mio compagno: ”Lasciali perdere altrimenti qui bisogna finire a cazzotti”. E ci portò via. Quegli autisti erano degli armadi. Ma Fini, che avrà pesato sì e no 60 chili con tutto il vestito grigio e la cravatta, gli aveva tenuto testa».
Oggi lei è considerato un finiano doc. Come giudica le sue posizioni su bioetica e immigrazione? «Sul biotestamento io sono andato più avanti di lui, perché considero la morte non la fine della vita, ma l’inizio della vita eterna. Religiosamente ritengo inaccettabile estendere contro la volontà divina un’esistenza vegetativa, negando tra l’altro agli esseri umani l’esercizio del libero arbitrio. Sugli immigrati condivido con lui molte cose, anche se penso che quella della cittadinanza a cinque anni sia più che altro una provocazione».
Per Fini, mica tanto.
«Ad ogni modo, quando non mi convince, vado a bussare alla sua porta. E ogni volta che mi ha dato una spiegazione ho trovato ragionevole tutto quello che ha fatto». Squilla il cellulare: «Mi comunicano dal gruppo che la mia presenza in aula è stata del 100%, ho partecipato a 144 votazioni su 144».
Quali sono le sue battaglie in Parlamento?
«In commissione Difesa ho seguito ultimamente il regolamento del governo sulla vendita dei beni immobiliari della Difesa, che coinvolge migliaia di famiglie, di cui moltissime erano a rischio di sfratto. Dopo quattro mesi di lavoro, ho trovato una mediazione che ha soddisfatto gli inquilini, il ministero e l’opposizione. Una bella soddisfazione».
Lei è anche membro della commissione Bilancio, dove ha intrapreso un duro braccio di ferro con Giulio Tremonti. «Con Tremonti su qualsiasi tema bisogna fare a braccio di ferro e generalmente si perde. Così è stato sulla cedolare secca sugli affitti e sulla proposta dei tagli dell’Irpef e dell’Irap avviata al Senato, che avevo riproposto in Finanziaria, dove avevo cercato anche di portare avanti la dilazione dei tributi per l’Aquila e gli altri comuni colpiti dal terremoto».
Com’è litigare con il ”Prof”?
«Col ”Prof” non si litiga. Lui ti ascolta e non dice ”no, non se ne parla”. Conclude con queste mezze aperture: ”Sì, sì, interessante, effettivamente hai ragione. Perché non elabori una proposta e me la fai avere?”. E tu rimani lì, come un deficiente. Un’esperienza frustrante, ma formativa».
Nel suo orizzonte 40 anni fa c’era la rivoluzione. Oggi? «Per chi come me crede di lavorare al servizio della nazione il Ppe va considerato un’opportunità, un luogo politico che potrebbe permettere all’Italia di condizionare le scelte europee, che finora abbiamo solo subito».