Giorgio Ruffolo, L’Espresso n. 7 anno LVI 18/2/2010, 18 febbraio 2010
QUANDO IL DENARO DIVENTA MERCE
(attenzione, scansionato, da rileggere) -
Cameriere, a Totò: «Mi avevate detto: domani vi pago». Totò: «E io confermo, domani ti pago». Cameriere: «Ma domani è oggi". Totò: «Giovanotto non scherziamo, oggi è oggi e domani è domani».
Totò non sapeva di rappresentare in questa scenetta un’importante tesi economica: enunciata da Marc Bloch, secondo cui il capitalismo è l’unico regime economico nel quale i debiti non si pagano mai: «Ritardare i pagamenti o i rimborsi e far accavallare perpetuamente gli uni sugli altri: questo sembra essere, in definitiva, il grande segreto del regime capitalistico moderno, la cui definizione più esatta potrebbe essere: un regime che morirebbe di una chiusura simultanea di tutti i conti». Pensate alle onde del mare che si inseguono e si accavallano l’una sull’altra nei pressi della riva. Il gioco dura per un certo tempo, poi, fatalmente, giunge la riva e le onde si infrangono sugli scogli. I debiti, alla fine, vanno pagati. Allora, come dice John Kenneth Galbraith, gli sciocchi sono privati del loro denaro. E gli incolpevoli lavoratori del loro lavoro. la crisi. Ma come nascono le crisi? Nascono dalla stessa fonte che alimenta la crescita del capitalismo. Lo sviluppo capitalistico, insegna Joseph Schumpeter, è alimentato da due forze: l’immaginazione degli imprenditori e la fiducia dei risparmiatori. Questa è almeno la visione nobile del capitalismo, il suo mito. Il capitale è anche, indubbiamente, grondante sangue, come dice Marx. Ma la realtà della violenza non esclude la verità del mito. L’innovazione dell’investitore e la fiducia del risparmiatore costituiscono insieme una formidabile forza, non soltanto economica. C’è nell’etica weberiana attribuita al capitalismo un fondo di innegabile verità. Le ipocrisie sociali, pur restando tali, non sono pure menzogne. In tutta la fase della sua genesi il capitalismo ha potuto contare su questa etica. Il credito ha conservato l’impronta semantica che lo definisce: il creditum, la fiducia.
Più tardi, con lo sviluppo della finanza, le cose sono cambiate: la fiducia è stata considerata un fattore secondario, o forse una categoria morale e quindi superflua. Ma anche qui, bisogna fare attenzione a non cadere nella vulgata della denigrazione. La finanza non è solo speculazione. Essa assolve una funzione essenziale, convoglia il risparmio verso gli impieghi più redditizi, indirizza il flusso delle risorse là dove sono impiegate con maggior profitto, sta dunque al servizio dello sviluppo e dell’economia. , anzi, il cervello dell’economia. Più esattamente, lo era. Come si spiega allora che la finanza abbia finito, nel nostro tempo, per esercitare una funzione squilibrante sull’economia? Per spiegarlo dobbiamo fare un passo indietro verso quella forma originaria del credito che è la moneta. Il mondo degli uomini ha fatto a meno della moneta per la maggior parte della sua storia. Ma le tribù dei raccoglitori-cacciatori, che nei millenni precedenti l’invenzione dell’agricoltura hanno costituito la sola forma di economia, erano tutt’altro che felici. Aveva ragione Thomas Hobbes quando diceva dello stato di natura, «solitario, povero, sgradevole, brutale, breve». Sì, ci sono state le pacifiche visite di donazioni reciproche degli abitanti delle isole Trobriand, descritte da Malinowski, ma quando due gruppi di popolazioni primitive si , incontravano la probabilità più alta era che ne nascesse uno scannamento reciproco, che si chiudeva con la mone violenta del 40-60 per cento dei maschi. Una delle più grandi invenzioni dell’incivilimento è stata quindi la moneta, questo pegno di fiducia tra creditori e debitori. Del resto è stato Voltaire a dire ammirato: «Entrate nella Borsa di Londra. Lì l’ebreo, il maomettano e il cristiano si trattano reciprocamente come se fossero della stessa religione». L’uso della moneta comportava, secondo il padre del secolo del Lumi, una fiducia reciproca tale da superare le stesse più radicate identità e credenze. E infatti, seguendo la storia della moneta dai babilonesi ai greci i romani e, nel medioevo, ai gloriosi strozzini italiani, vi riconosciamo due grandi passioni contrastanti: l’avidità e la fiducia. Sorretta, dall’intelligenza, che inventa relazioni formalizzate in contratti (il mercato) e regole e leggi di protezione di quelli, senza le quali nessun mercato avrebbe potuto costruirsi. Ma attenzione, un momento cruciale, che segna anche la nascita del capitalismo è, alle soglie della storia moderna, la trasformazione della moneta in merce. La moneta non nasce come merce di scambio ma come istituzione: per regolare, per dare leggi alla spontanea reciprocità degli umani. La sua trasformazione in merce è una forzatura delle sue funzioni originarie, e mette anche in questione la stessa idea della moneta come un’espressione di scambio. La moneta diventa una merce ma, come dice Karl Polanyi, una merce fittizia. E da ciò derivano per il capitalismo due conseguenze: di potenza e di instabilità. Infarti, la "alienazione" della moneta che, conservando le sue funzioni di unità di conto e di mezzo di pagamento, acquista la funzione di un valore da accumulare, e da strumento diventa un fine, conferisce al capitalismo una formidabile potenza. Ma la base sulla quale quell’accumulazione si fonda la fiducia la espone a tracolli, quando quella fiducia vien meno.
La fiducia ha un difetto. Può degenerare in euforia. Avviene allora ciò che raccontava non Carlo ma Groucho Marx: «Chiudevamo gli occhi, poggiavamo il dito a caso su un titolo della Borsa e quello saliva saliva». Si chiama inflazione finanziaria, quella dei titoli, diversa da quella convenzionale, delle merci vere: perché quando il prezzo del latte sale, la gente compra meno latte, mentre quando sale il titolo della Parmalat la gente compra più titoli, in attesa che salgano ancora. L’inflazione normale è compensativa, quella finanziaria è cumulativa. La banca centrale stampa moneta, le banche concedono crediti. Certo, ci sono limiti: alla stampa di moneta, perché, per un lungo periodo vige l’obbligo di convenire la moneta in oro; alla concessione di crediti, perché le banche devono osservare una certa proporzione tra i crediti e il capitale. Ci sono delle àncore. Ma negli ultimi decenni si è prodotta una spinta al disancoraggio: per esempio la liberazione dei movimenti di capitale. Premute dalla domanda di fondi per acquistare case, le banche hanno trasformato così i crediti in titoli: cioè hanno trasformato un’obbligazione da osservare in una mercé da scambiare. I titoli, spinti dalla domanda, sono cresciuti, rialimentandola: un’inondazione di liquidità. Economisti di chiara fama hanno salutato questa cartolarizzazione (parola impossibile; ma quella inglese, securitisation, non è più rassicurante) come un evento salutare perché, si diceva, permetteva di spalmare il rischio di credito su una vasta platea, fin quasi a farlo sparire. Non è stato così. Quando l’aumento della domanda di credito ha spinto in alto i tassi d’interesse, molti debitori tra quelli cui si era prestato troppo generosamente non ce l’hanno fatta a pagare, e le banche hanno registrato perdite che si sono diffuse con rapidità istantanea, determinando un blocco dei crediti e un prosciugamento della liquidità. Per avere preteso di eliminare il rischio del credito si è incorsi nel rischio della liquidità. La liquidità è diventata la delizia e la croce della finanza e ha finito per guidare le sorti dell’economia reale. E non solo dell’economia. L’euforia liquida ha investito Finterà società in un processo di liquefazione, di cui l’ossessiva corsa al denaro è l’aspetto più flagrante, e che è stato incisivamente rappresentato da Zygmunt Bauman. La crisi che stiamo ancora attraversando e della quale non abbiamo misurato le conseguenze durevoli, dovrebbe farci riflettere su quell’economia di Totò che consiste nel paradosso della liquidità: pagare i debiti di oggi con quelli di domani. l’economia nella quale i debiti "non si pagano" e il domani non arriva mai, e siccome non c’è futuro, non c’è neanche bisogno di cooperazione tra le persone, ed è superfluo un rapporto basato sul fatto che ci fidiamo gli uni degli altri (come, per l’appunto «il cristiano, l’ebreo, il maomettano»). Per tornare all’inizio: cosa succede quando l’onda si infrange sulla riva? Cosa succede quando la fiducia è mancata davvero? Succede che a ricostituire le condizioni della liquidità è chiamato il vituperatissimo Stato. Si fa un gran parlare di nuove regole. Ma finora si è visto solo un gran scavare buche nei bilanci pubblici per riempire le buche aperte in quelli delle banche. La sola ricetta applicata con indubbio successo a breve (breve sembra la parola magica di questa società, dall’economia alla giustizia) è quella di ricostituire nel più breve tempo possibile la liquidità. Quello del capitalismo finanziario del nostro tempo sta diventando un percorso di inondazioni intramezzato da crisi. C’è un modo di sottrarsi a questa oscillazione distruttiva? In un recente libro ("Fine della finanza". Donzelli) due economisti, Massimo Amato e Luca Fantacci hanno osato andare al fondo del problema, a quella mercificazione della moneta cui bisogna risalire per spiegare la distorsione della liquidità. E hanno avuto il coraggio di presentare un’alternativa radicale ma possibile: sottrarre la moneta al mercato finanziario per ricondurla alle sue due funzioni regolatrici, di unità di conto e di mezzo di pagamento; affidarla alla responsabilità politica, sia a livello mondiale con il ritorno al programma difeso invano da Keynes a Bretton Woods (una moneta mondiale che poggi su un grande accordo politico); sia a livello sociale, togliendo alla moneta la proprietà fittizia di una merce, affidando al potere politico, non più al mercato finanziario, il compito di garantire il potere d’acquisto della moneta in termini dei beni presenti, in termini di altre monete (tasso di cambio) e in termini di beni futuri (tasso , d’interesse). Un’economia nella quale non si rinvia ai posteri il pagamento dei debiti, che si saldano alla loro scadenza. Insomma, un’economia non ossessionata dalla crescita ma orientata all’equilibrio e basata sullo stesso principio che regola il | dono: l’obbligo di reciprocità. "Vaste programme!", avrebbe esclamato il generale de Gaulle. Accoglieranno sicuramente queste proposte come ? utopistiche follie gli economisti legati al realismo dell’economia di Totò.