BIJAN ZARMANDILI, la Repubblica 11/2/2010, 11 febbraio 2010
QUELL’11 FEBBRAIO FINITA UN’EPOCA
Come era tetra la città santa di Qom durante quell’inverno del 1979. Ryszard Kapuscinski, il giornalista polacco che era nella Città santa per incontrare Khomeini si domandava come facesse questo uomo a meditare sul futuro dell’Iran in un panorama così piatto e inquietante. Eppure proprio qui, in una modesta casa nei pressi del Mausoleo dedicato alla Splendente Fatima Masumeh, l’11 febbraio di quell’anno è stata resa pubblica la fine di una epoca, di 2.500 anni di monarchia: nasceva la Repubblica islamica iraniana dopo appena undici giorni dal ritorno di Khomeini dal suo esilio.
Anche quella mattina quando Khomeini scese all’aeroporto di Mehrabad, il cielo della capitale era grigio e il volto dell’ayatollah era come sempre accigliato come quello di una sfinge che non prova alcuna emozione. Poche parole nella sala dell’aeroporto: «Il diritto appartiene al popolo e il governo non ha il diritto di mantenerlo sotto la sua tutela. Per questo noi non riconosciamo la sua legittimità», e poi si era chiuso nella macchina che lo portava a Qom. La sentenza era rivolta a Shapur Bakhtiar, l’ultimo primo ministro scelto dallo Scià prima di lasciare il paese e morire sei mesi più tardi di cancro nel suo esilio al Cairo.
Era difficile raggiungere Mehrabad: un oceano fatto di milioni di teste impediva il passaggio. Donne con il chador, ragazze con i capelli al vento, giovani barbuti e altri con i capelli lunghi e uno specie di eskimo persiano: tutti osannavano l’imam, ma già gli sguardi dei barbuti evitavano quelli dei giovani coll’eskimo e le ragazze senza velo: si cominciava a distinguere khodi da nakhodi, noi da loro.
Era lui, l’ayatollah Khomeini, il nuovo padre-padrone e i giorni che seguirono il suo ritorno a Qom sono serviti a elaborare la strategia post-rivoluzionaria insieme ai sui più stretti collaboratori, tra cui AbolHassan Bani Sadr, il primo presidente della Repubblica islamica, ma anche una delle prime vittime della guerra fratricida che cominciò da lìa pochi mesi.E fu in una spoglia stanza della casa della figlia dell’Imam a Qom che fu chiamato Mehdi Bazorgan, un vecchio ingegnere galantuomo, a formare il nuovo governo, mentre i grandi ayatollah preparavano la Costituzione del loro Stato teocratico.
L’emblema della disfatta dell’ancien regime è stata consumata invece a mezzogiorno del 9 febbraio a pochi passi della Piazza Majlis. Come nei giorni precedenti passava un ennesimo corteo di dimostranti con i ritratti di Khomeini. Nella parte opposta c’erano i militari, ancora nelle loro uniformi dell’esercito imperiale. Uno degli ufficiali stacca i gradi dalle spalline e li butta per terra. Lo seguono altri ufficiali. Poi i soldati depongono a terra le armi e quando il corteo raggiunge i soldati qualche ufficiale ha gli occhi lucidi. Grida: «Viva Agha Khomeini, viva l’imam, morte allo scià». Nella edizione serale di Ettelleat ci sono grandi titoli sull’ammutinamento di intere caserme e sulla abdicazione dell’esercito a favore del potere rivoluzionario.
Intanto Teheran, come Isfahan, Shiraz, Mash-had, Tabriz, viveva il suo straordinario caos e delirio rivoluzionario. Nelle edicole erano comparse decine e decine di nuove testate, qualcuna portava persino il simbolo della falcee martello in un cerchio rosso. Si erano aperte anche le porte delle carceri e c’era una febbrile caccia ai torturatori della Savak, la polizia politica dello Scià. Sorprendevano anche i dibattiti della televisione, con Bani Sadr che con fare professorale parlava della dialettica hegeliana e del senso della concordia nell’islam e poco dopo compariva sullo schermo l’Ayatollah Khalkhali, noto come il Robespierre iraniano, a rendere conto del lavoro dei tribunali rivoluzionari e del numero dei "Taghuti", dei dignitari della monarchia, condannati a morte.
Ma è all’ombra della cupola del Mausoleo della Splendida Fatima che si preparava il grande tranello che condizionerà per sempre quel giovane, delirante e gioioso potere politico che aveva sostituito la dittatura dello Scià: il clero sciita conservatore, su raccomandazione dello stesso Khomeini, introduceva un articolo insidioso nella nuova Costituzione: Velayat-e-Faghh, il diritto di veto riservato al Leader supremo. Il 90 per cento degli iraniani ha votato la Costituzione, ignorando la vera portata di quell’articolo.
Anche perché nessuno allora dubitava dell’amato imam. Non sono bastati nemmeno i moniti di qualche ayatollah lungimirante, come l’ayatollah Shariat Madari che criticò quell’articolo e disse che avrebbe dato luogo a una nuova dittatura. In quelle convulse giornate nessuno pensava anche a Ali Khamenei a Mahmud Ahmadinejad. C’è stato bisogno dell’isolamento internazionale in seguito alla presa degli ostaggi americani, gli otto anni di guerra contro l’Iraq e i morti di questi ultimi mesi per capire cosa si era preparato in quei giorni nel grigio di Qom, ma era ormai troppo tardi.