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 2010  febbraio 11 Giovedì calendario

QUANDO IL MONDO SOTTOVALUTO KHOMEINI

«Ci sono stati contatti tra le Sas e Fort Bragg, su loro iniz i a t i v a , p r o p o nendo che due membri delle Sas visitino Washington per dare consigli su piani contingenti per una possibile operazione militare connessa all’occupazione dell’ambasciata americana in Iran».

Classificato "segreto", trasmesso il 6 novembre 1979, il telegramma di Lord Carrington, all’epoca ministro degli Esteri britannico, chiede con preoccupazione al suo ambasciatore a Washington di chiarire se la richiesta fatta partire da Fort Bragg, sede del comando supremo Usa, per ottenere l’assistenza delle Sas, l’unità di élite delle forze armate del Regno Unito, ha effettivamente l’autorizzazione della Casa Bianca; o se è un segno del caos che regna supremo nell’amministrazione americana di Jimmy Carter.

Un’ambasciata sotto attacco, i pasdaran della rivoluzione islamica che gridano "morte" al nemico, la diplomazia in allarme, i commandos che studiano soluzioni di forza. Sono fatti di trent’anni or sono, ma è possibile equivocare con quanto sta accadendo oggi a Teheran: perché tra l’Iran e l’Occidente sembra destino che la storia si ripeta. La prima volta finì in tragedia, la seconda non è chiaro come andrà.

Ma c’è un filo che annoda tre decenni di tempestose relazioni, tre decenni che hanno cambiato il mondo, inserendo una nuova minaccia, quella dell’estremismo e del terrorismo islamico, al posto della guerra fredda: e la costante, come indicano i documenti inediti consultati da Repubblica negli archivi di Kew Gardens a Londra, è la difficoltà dell’America e dei suoi alleati nel comprendere le mosse dell’Iran, la grande nazione persiana, diventata variabile impazzita, destabilizzante, dello scacchiere internazionale.

La rivoluzione khomeinista era figlia di un’altra era, il tempo in cui le superpotenze tracciavano i confini degli Stati vassalli con un righello sulla carta geografica, facendo o disfacendo regimi a proprio piacimento. Preoccupati da possibili simpatie tedesche dell’Iran, Gran Bretagna, America e Russia avevano manovrato per ottenere l’abdicazione dello scià Reza in favore del figlio Reza Pahlevi durante la seconda guerra mondiale. Quindi, nel 1953, la Cia orchestra il golpe che fa cadere il popolare premier iraniano Mossadegh, colpevole agli occhi di Washington per le nazionalizzazioni petrolifere: sempre lì si torna in Medio Oriente, all’oro nero e ai giganteschi interessi che vi ruotano attorno. Nel frattempo è iniziata la guerra fredda tra Usa e Urss. Reza Pahlevi si rivela sempre più un autocrate, ma per Washigton è «uno dei nostri», un dittatore amico, così viene data mano libera a lui e alla Savak, la sua feroce polizia politica. L’Occidente non capisce le dimensioni del crescente dissenso in Iran, o lo ignora. Nel 1978 iniziano le dimostrazioni di protesta. Nel gennaio 1979, malato di cancro, lo Scià parte per gli Stati Uniti, dove sarebbe morto. Pochi giorni dopo, l’ayatollah Khomeini, esiliato a Parigi, torna trionfalmente in patria. L’11 febbraio cade la dinastia del trono del pavone, travolta da una protesta che accomuna radicali islamici, nazionalisti e marxisti. E a novembre, mentre cominciava a manifestarsi una nuova autocrazia, quella degli ayatollah, studenti islamici occupano l’ambasciata americana di Teheran, prendendo oltre 50 diplomatici americani in ostaggio. Il presidente Carter prova a negoziare, usa pressioni e sanzioni, infine ordina un’azione militare per liberarli, fallendo miseramente. L’Iran gli costa la presidenza: nel 1980, con gli ostaggi ancora prigionieri, non è rieletto, battuto da Reagan.

Al Foreign Office, il ministero degli Esteri britannico, il 13 giugno ’79 un’analisi riservata descrive tre scenari: lo Scià abdica e lascia il potere al figlio; lo Scià viene assassinato e anche il figlio è incapacitato; un colpo di Stato instaura un nuovo regime, «di destra o di sinistra». Pochi giorni dopo, un telegramma dall’ambasciata britannica di Teheran esclude «che i contadini possano giocare un importante ruolo politico» in un’eventuale ribellione islamica. Il 19 settembre, l’ambasciatore Parsons è ricevuto a palazzo reale: «Sono rimasto scioccato dall’aspetto e dalle maniere dello Scià», riporta ai suoi superiori. «Sembra esausto, privo di spirito». La situazione peggiora di giorno in giorno, ma a Londra si temporeggia. «Non dovremmo dare per scontato che lo Scià sia finito», conclude un rapporto diplomatico il 20 dicembre. «Non ha ancora tentato la carta di una dura repressione militare. Sarebbe politicamente spiacevole per noi, ma può funzionare, molti potrebbero preferire uno spietato esercizio del potere al caos».

Gli americani sono, se possibile, ancora più confusi. Il 6 settembre del ’78, l’ambasciata britannica a Washington riferisce su un briefing della Cia: «Lo Scià ha più chance di trovare un modus vivendi con l’opposizione di sinistra che con gli estremisti islamici. Una sua riconciliazione con i religiosi richiederebbe tempo e potrebbe non essercene abbastanza. La chiave della stabilità è l’esercito. Finora è stato efficace nel mantenere l’ordine, ma potrebbe non esserlo se alle truppe fosse chiesto di sparare sui dimostranti». Il 22 dicembre Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, confida a un diplomatico britannico che «lo Scià dovrebbe instaurare un completo regime militare, quello che è in gioco è troppo importante per ulteriore indecisione». Brzezinski, un "falco" nella Casa Bianca di Carter, chiede se Londra sosterrebbe una dittatura militare a Teheran, ma poi ammette che nell’amministrazione c’è chi, come il segretario di Stato Vance, una "colomba", preferisce altre soluzioni. Quindi la situazione precipita: lo Scià fugge, Khomeini sta per tornare a Teheran. Ed ecco, in un memoriale segreto del 20 gennaio 1979, lo spettro che annebbia il giudizio degli americani: l’amministrazione Usa informa Londra che Khomeini «era ed è soprattutto un leader islamico, non uno strumento dei comunisti. A Parigi ha avuto contatti con l’opposizione iraniana comunista, ma niente di sistematico o di sinistro». lo spauracchio di Washington: un complotto comunista, con dietro l’Urss, per spostare l’Iran nella casella degli alleati di Mosca. La Casa Bianca non vede che il "pericolo rosso" è al tramonto e che se ne profila un altro, di cui l’ayatollah sarà l’ispiratore.

Ecco un altro scambio di messaggi fra Londra e Washington, nel novembre ’79, dopo la presa dell’ambasciata americana a Teheran. Lord Carrington vuole sapere se la Casa Bianca ha autorizzato Fort Bragg a chiedere l’aiuto dei commandos delle Sas per organizzare un’operazione militare per la liberazione degli ostaggi.

«Siamo stupefatti che Fort Bragg abbia fatto una richiesta simile senza consultare la parte politica», è la risposta del dipartimento di Stato Usa. «Vi siamo grati per avere portato la questione alla nostra attenzione.

L’opinione della Casa Bianca è che ogni azione di questo tipo sarebbe la cosa peggiore che possiamo fare». L’anno seguente, disperato, Carter ordina l’azione militare ed è un disastro. Ma il punto è un altro: il telegramma dei suoi diplomatici rivela un’amministrazione americana divisa e incerta, in cui i militari non parlano con i politici e prendono addirittura iniziative per conto proprio. In questo modo la grande superpotenza affrontava la crisi iraniana, e in questo modo la perse. Speriamo che da allora abbia imparato qualcosa, per la nuova sfida posta da Teheran.