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 2010  febbraio 07 Domenica calendario

DIECI, CENTO MILLE DE LUCA



Gli hanno sparato addosso di tutto e di più. Un sindaco sceriffo. Un sindaco con il manganello. Un perfetto leghista. Un politico dal linguaggio rozzo. Un plurinquisito. Uno Chávez campano (imitatore del colonnello Hugo Chávez, l’autoritario presidente del Venezuela). Un satrapo di provincia che gestisce un sistema di potere. E ancora «un padano, la cui visione della vita civile provoca disagio». Quest’ultima è di ”Faccia d’angelo”, ossia di Nichi Vendola, che spiega: « irricevibile la proposta di questo sceriffo padano come governatore della Campania. Si deve tornare a un tavolo politico per ragionare anche di personalità della società civile».
Il bersaglio del tirassegno è Vincenzo De Luca, 61 anni a maggio, sindaco di Salerno dal 1993 e oggi candidato del Pd alla carica di presidente della regione campana. De Luca non è passato per le forche caudine delle primarie per un motivo semplice: non esisteva un altro candidato e, dunque, veniva a mancare la possibilità di un duello preventivo nel centro-sinistra.
Perché non esisteva? Chi sa tutto della Campania avrà almeno dieci risposte.

Ma qui ne bastano due. La prima è che il governatore uscente, Antonio Bassolino, non possedeva la forza per ripresentarsi agli elettori. La seconda, ben più importante, è che De Luca è stato, ed è ancora, un ottimo sindaco di Salerno.
Mi sembra inutile raccontare quanto sia cambiata in meglio la sua città. Persino i sassi conoscono come sia diverso vivere a Salerno piuttosto che a Napoli o in un altro capoluogo campano. Lo scrivo con il rispetto dovuto ai tanti sindaci della regione. Tutti alle prese con un mestiere ingrato, da non augurare al peggiore nemico.
Più interessante è considerare da dove arrivino a De Luca le frecce avvelenate delle quali ho offerto un piccolo campione. Non vengono dal centro-destra, come sarebbe quasi inevitabile. Gli piovono addosso dalla sua stessa area politica: la sinistra campana e nazionale, nelle versioni più diverse. Ecco un dato di fatto che può stupire qualcuno, ma non l’autore del Bestiario.
Da tempo sono convinto, e lo vado scrivendo, che il male oscuro della sinistra italiana è la pulsione a combattersi da sola, una perfetta vocazione al suicidio. Per chi crede nella forza della storia, si realizza quello che non era accaduto alla fine della Prima Repubblica. Nell’epoca sanguinosa di Tangentopoli (anni 1992-1994), soltanto il vecchio Pci era riuscito a sopravvivere. Mentre i suoi competitori, la Dc, il Psi e i partiti minori, sparivano nel gorgo del disonore.
Rimasto da solo sul campo, il Pci ha mutato nome, dirigenti, struttura e linea politica. persino riuscito ad arrivare al governo, sia pure sotto la guida di un democristiano come Romano Prodi. Ma la sua discesa all’inferno non si è arrestata. Adesso si trova alle prese con una guerra civile interna. Un conflitto spietato che rischia di estinguerla del tutto. Nonostante gli sforzi, quasi eroici, di un cireneo come Pier Luigi Bersani.
Politico di lunga esperienza, prima nel Pci, poi nel Pds, quindi nei Ds e oggi nei Democratici, De Luca conosce bene questa corsa suicida verso l’abisso dell’inesistenza. Se ha deciso di ingaggiare un’altra battaglia, deve avere messo nel conto le ferite di un demenziale fuoco amico. Neppure lui è sicuro di vincere. I sondaggi gli attribuiscono un quattro per cento in meno dell’avversario, Stefano Caldoro, il candidato del Popolo della libertà. Ma la gara è aperta. In che modo si concluderà lo sapremo soltanto alla fine di marzo.
Quanto sia alta la confusione sotto il cielo dell’opposizione ce lo conferma anche il comportamento dell’alleato numero uno del Pd: l’Italia dei valori di Antonio Di Pietro. Sino a qualche giorno fa, Tonino aveva gridato un forsennato ”no” alla candidatura di De Luca. Con il pretesto che il sindaco di Salerno era imputato in due processi.
Certo, la sua città era bene amministrata, ma si trattava di un dettaglio irrilevante. Per questo, Di Pietro aveva chiesto al proprio gemello, Luigi De Magistris, di candidarsi in Campania. Con lo scopo nascosto di levarsi dai piedi un concorrente pericoloso dentro il partito. Ma il gemello, che fesso non è, gli ha risposto picche.
Allora è accaduto l’impensabile. Nel giro di soli quattro giorni, Di Pietro ha rovesciato il ”no” in un ”sì”. Giurando che sosterrà De Luca a una condizione: se venisse eletto e poi condannato, dovrebbe lasciare l’incarico di governatore. Il sindaco di Salerno deve aver sorriso sotto i baffi che non ha. E gli ha replicato: «Nel caso di una condanna definitiva, è scontato che me ne andrò subito. Sono sempre stato per la legalità e per il rispetto della magistratura».
De Luca aveva già spiegato perché si trova sotto giudizio: «Le condotte che mi hanno procurato quei due processi, io le ripeterei. Non ho perseguito i miei interessi. Rappresento quei tanti sindaci che ancora si assumono responsabilità, a dispetto dei vili e degli inetti. L’Italia è un paese dove la paura di mettere una firma in calce a un atto paralizza tutto, proprio per evitare un avviso di garanzia. Ma io ho piena fiducia nei magistrati. E non mi sottrarrò mai al loro controllo».
Ottima risposta, signor sindaco di Salerno. Ma non s’illuda. Le frange lunatiche delle sinistre italiche non smetteranno di farle la guerra. L’antagonismo rosso è una talpa che scava e scava. Con la testarda idiozia di chi si prepara da sola la propria tomba. Per questo, il sottoscritto, pur non contando nulla, ripete convinto: dieci, cento, mille De Luca! Lui non sarà un altro Delbono.
Di Giampaolo Pansa