Fabrizio dཿEsposito, Il Riformista 5/2/2010, 5 febbraio 2010
A VOLTE RITORNANO
Castellammare di Stabia. Il grande manifesto sei per tre appare subito sulla bretella che va dall’uscita del casello autostradale alla statale per la penisola sorrentina. Castellammare di Stabia, il vero feudo della dinastia Gava dopo la scelta del capostipite Silvio di lasciare il natìo Veneto.
Il faccione di Angelo Gava conferma quanto profetizzò Enzo Biagi negli anni settanta: «Il colera passa, i Gava restano». Ma per la famiglia sinonimo di doroteismo allo stato puro, dentro e fuori la vecchia Balena Bianca, adesso non è più tempo di gogna e di processi. l’ora della rivincita, come strilla il sei per tre: «La storia ci ha dato ragione». Sotto, tre nomi che fanno venire in mente la sequenza della genealogia di Gesù nel vangelo di Matteo. Silvio generò Antonio, Antonio generò Angelo.
Salgono dunque a tre le generazioni gavianee in politica. Angelo Gava si è infatti candidato col Pdl alle regionali in Campania. La sua discesa in campo è stata presentata a Roma più di una settimana fa dal ministro neodc Gianfranco Rotondi. Ma la storia, quando ci si mette, non dà solo ragione ai perseguitati dalla giustizia.
Ad Angelo Gava ha riservato pure un’altra sorpresa. Perché nella lista del Pdl a sostegno dell’ex socialista Stefano Caldoro troverà Flora Beneduce, moglie dell’ex assessore regionale Armando De Rosa. Qui ogni paese ha il suo doroteo storico e Armando De Rosa da Vico Equense è stato il grande accusatore del papà di Angelo, Antonio.
la famigerata storia delle pampuglie della Prima repubblica, venuta fuori nel 1995. De Rosa andò da Gava, nella sua casa di Viale Indonesia a Roma, con una busta sigillata. Dentro c’erano trecento milioni di lire. Una tangente. Soldi dei costruttori napoletani Gennaro Corsicato e Antonio Passarelli per la costruzione dell’ospedale di Vico (di cui oggi Beneduce è tra l’altro primario di Medicina). Gava prese la busta, la aprì, contò i soldi ed esclamò: «Ma cheste so’ pampuglie». «Ma queste sono pampuglie». Ossia briciole. Meglio: trucioli, rimasugli di legno. In una parola: un’inezia. Potente assessore della Campania, nel 1987 (lo stesso anno in cui consegnò le pampuglie a Gava) De Rosa era in procinto di diventare presidente della Regione quando i carabinieri fermarono un imprenditore veneto diretto a casa sua a Vico Equense. In una valigetta aveva cento milioni di lire, ottanta in contanti e venti in assegni. Un’altra tangente.
L’ascesa dell’astro nascente doroteo fu stroncata e lui, De Rosa, da allora ha sempre sospettato di un complotto interno per farlo fuori. Anche per questo divenne il primo grande pentito democristiano di Tangentopoli. Gava fu arrestato per le pampuglie nel giugno del 1995 su richiesta dei pm di Torre Annunziata Paolo Fortuna e Giancarlo Novelli, gli stessi dell’inchiesta Cheque to cheque e di quella gigantesca sulla pedofilia via Internet, che causò pure le dimissioni di Gad Lerner da direttore del Tg1 per via di alcune foto dell’orrore mostrate in tv. Dopo le manette, Gava fu protagonista di un memorabile confronto con De Rosa in una caserma di Roma, che i magistrati vollero immortalare con un video.
I dialoghi sono esemplari. De Rosa: «Antò, tu sapevi delle tangenti al partito, ho sempre taciuto ma adesso racconto tutto, non ne posso più». Gava: «Armando, ma che dici, sono sorpreso». De Rosa: «Antò, volevo aiutarti, per amicizia non ho mai parlato, mi sono beccato pure una condanna a sei anni di carcere (per le tangenti dell’imprenditore veneto, ndr). Che errore, che ingenuità, mi sono lasciato prendere dai sentimenti. Ma ora basta, confesso: Antò quando vedesti il denaro dicesti cheste so’ pampuglie, queste sono briciole, e io me ne tornai a casa con la coda tra le gambe». Gava: «Lo escludo. Questo non è il mio linguaggio». De Rosa: «Giudice, il senatore ha sempre amato parlare in napoletano. Antò, ti ricordi quando dicesti chillo è ’nu piscitiello ’e cannuccia, quello è un ingenuo? Prendesti i soldi di Corsicato e mi facesti una pezza, mi trattasti malissimo».
Ma la dichiarazione di De Rosa che racchiude più di ogni altra un’epopea democristiana di decenni fu questa: «Antò, ammettilo che ti ho portato quei soldi, tanto nessuno potrà diminuire i meriti del nostro partito, questo era un paese agricolo e distrutto dalla guerra e lo abbiamo industrializzato». Era il 30 maggio 1996, allora, quando il presidente del secondo collegio del tribunale di Torre Annunziata, Claudio Tringali, lesse la sentenza di condanna per l’imputato «Gava Antonio», difeso da Carlo Taormina ed Eugenio Cricrì, a cinque anni di carcere per ricettazione. Uno in più dei quattro chiesti dall’accusa. La prima condanna per Antonio Gava, già ministro dell’Interno, a sua volta figlio di un ex ministro di Grazia e Giustizia. In appello fu ridotta a due anni e nel 2002 la Cassazione la annullò senzia rinvio per intervenuta prescrizione. La Suprema Corte, infatti, riqualificò il reato: da ricettazione a concorso in corruzione, imputazione però cancellata dal tempo.
Quella delle pampuglie, quindi, è l’unica macchia che rimane nella carriera politica di Gava. Lui e tutti gli altri suoi colonnelli uscirono indenni dai processi di camorra iniziati dopo il pentimento dei due capi della Nuova famiglia, Carmine Alfieri e Pasqualino Galasso. L’unico a pagare, per concorso esterno, fu l’ex sottogretario Francesco ”Ciccio” Patriarca da Gragnano, paese dei Monti Lattari tra Castellammare e Vico. Oggi il sindaco di Gragnano è la figlia di Patriarca, Annarita. Sempre per il Pdl. E senatore del centrodestra è anche il sorrentino Raffaele Lauro, altro gavianeo di ferro e coinvolto da prefetto nello scandalo dei fondi neri del Sisde. Insomma, se nel Pdl, gli ex colonnelli di An, insieme coi mandarini azzurri, vogliono fare un nuovo correntone doroteo non hanno che da bussare alle porte di alcuni loro compagni di partito. Loro sì, dorotei veri, per discendenza.