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 2010  febbraio 09 Martedì calendario

CECHOV

«Una panchina lungo la ribalta dinanzi alla buca del suggeritore. E gli attori seduti l’uno accanto all’altro, con la schiena al pubblico, per assistere al monodramma di Treplëv, interpretato da Nina. La sera del 17 dicembre 1898. Al Teatro d’Arte recitavano Chayka, Il gabbiano. Si erano tormentati a lungo nella ricerca dei toni giusti. Bisognava portare alla luce il ”corso subacqueo” dei sentimenti, la segreta ”texture” psicologica, le indistinte allusioni: tutto ciò che in Cechov palpita sotto l’involucro delle parole».
Nessuno (forse) è riuscito a rendere su carta, con la stessa evidenza di Angelo Maria Ripellino autore del mitico saggio Il trucco e l’anima, sui maestri della regia russa lo spirito cechoviano, il fiume sotterraneo che scorre sotto le frasi dei racconti, nelle battute di teatro, addosso alle figure sommesse e insieme violente di un mondo poetico, privo di confini.
Il grande drammaturgo russo ha compiuto da poco 150 anni, essendo nato il 29 gennaio del 1860 a Taganrog, sul mare d’Azov. Un compleanno. Non una celebrazione. Perché il teatro continua a dar vita, stagione dopo stagione, all’Anton del Gabbiano, di Zio Vanja, delle Tre sorelle, del Giardino dei ciliegi. Quanto più l’umana esistenza è costretta, nell’età del web, a farsi rapida, ossessionata, superficiale, tanto più la magia calmante dei suoi universi si impone allo spettatore, restituendogli un desiderio fondamentale: ”avere tempo”.
«La vita è passata e non ci si accorge di averla vissuta» sintetizza, nella battuta finale del Giardino dei ciliegi, il decrepito servitore Firs, dimenticato, come un mobile intrasportabile, nella vecchia casa che i padroni sono costretti a lasciare. Nell’onda biancorosa dei ciliegi sfioriscono la buona stagione, i sogni, le ingenue speranze d’amore nutrite anche da piccoli segni, e si dissolvono gli spazi umani del vivere. L’arrembante Lopachin, con i suoi soldi grevi, asfissianti, corruttori, ha portato nel giardino un vento di novità che annichilisce gli alberi, scavalca ogni eleganza, dissesta l’armonia. Un terremoto, il suo, che oggi ci risulta familiare. Nello stesso modo l’incitamento delle Tre sorelle, «A Mosca! A Mosca!», che altro diventa se non la frustrata propensione verso un luogo diverso da quelli dei patimenti consumistici a cui siamo obbligati? Tutto è già in Cechov, senza parere, impalpabilmente, detto da labbra atteggiate a un sorriso che all’occorrenza si fa ghigno, risata piena, gorgoglio amaro.
Chi è Cechov, qui e ora?
Una risposta interessante l’ha data pochi mesi fa Luca Ronconi, presentando allo scorso Festival di Spoleto, nella Chiesa sconsacrata di San Simone, Un altro gabbiano, di/da Cechov, work-in-progress in cui sostiene personalmente il ruolo del medico Dorn. C’è un solo altro Cechov, prima del Gabbiano, nella storia teatrale del nostro regista (Tre sorelle). Il motivo? Ronconi non trova attuale il drammaturgo russo. O meglio, gli assegna un’attualità ”per contrasto”, identificandola nella persistenza dei suoi valori fuori moda. «Cechov dice accusa il peso del tempo se chi lo rappresenta insiste su certi canoni di autenticità, verosimiglianza, adesione puntuale ai suoi climi e ai suoi personaggi. Bisogna invece dimostrare che gli anni hanno definitivamente smontato gli uni e gli altri, che il nostro tempo ci impedisce, sulla scena come nella vita, figure e situazioni realmente quotidiani, vivi, veri, ”umani” nelle scansioni e nei ritmi. Cechov vale se smontato e rimontato, come abbiamo fatto a Spoleto in occasione del Gabbiano: scene del testo raggruppate per temi, senza ordine cronologico, e personaggi non impegnati a costruire l’impressione della verità, vale a dire non cechoviani in senso tradizionale, ma capaci di soffrire la loro (attuale) impossibilità di essere autentici. Niente scene. Niente costumi. Solo sedie su cui sedere. Semplicità. Voci. Il testo. La parola».
Sulla semplicità cechoviana insiste anche il lituano Eimuntas Nekrosius, ma in senso contrario: «Ogni parola di Cechov sembra esser nata da sola, spontaneamente, avendo poi trovato il posto giusto nel corpo del testo cui appartiene. Un prodigio di semplicità. Chi tenta su Cechov strani esperimenti rischia di creare una complessità inutile. In Cechov sono (e devono rimanere) coplessi i temi, che vanno per contro rappresentati in modo del tutto lineare, diretto, non trasversale, senza mai voler fare cose diverse o stupefacenti».
Ha raccontato il tedesco Peter Stein: «La mia conoscenza della Russia è cominciata con Cechov. Io non posso essere obiettivo con lui. Ho sempre l’impressione, un’impressione assillante, che lui sia vivo. Ho provato la stessa sensazione dopo la morte di mia madre. Ma dopo un anno e mezzo, questa sensazione passò, mentre per Cechov non mi lascia mai».
Strehler, adoratore di Cechov, dipana invece così, nei suoi appunti di regia per la famosa messinscena ”in bianco” del Giardino dei ciliegi (1974), il mistero del medico-scrittore: «Il problema di Cechov è sempre quello che io chiamo delle ”tre scatole cinesi”. Ci sono tre scatole: una dentro l’altra, a stretto contatto, l’ultima contiene la penultima, la penultima la prima. La prima scatola è la scatola del ”vero” (del possibile vero che in teatro è il massimo vero), e il racconto è un racconto umano, interessante».
Perfeziona Lev Dodin: «I testi di Cechov sono fatti di una sottile materia spirituale. Anche se quello che vi accade è reale. Stanislavskij ritenne questa la contemporaneità del drammaturgo, e fece di conseguenza molta attenzione a restituirgliela sulla scena nel modo migliore, cioè in forma di accurata quotidianità. Per noi tale quotidianità è lontana, per noi Cechov è presente non per le sue descrizioni incredibilmente precise di uomini e donne e delle loro azioni, ma perché coglie aspetti eterni dell’esistenza, caratteristiche non dipanabili dell’animo e del cuore umani. In una sola frase, la passione della vita».
Dopotutto, in barba alla salute malferma, Cechov era solito dire: «La medicina è la mia moglie legittima, la letteratura è la mia amante: quando mi stanco di una, passo la notte con l’altra».