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 2010  febbraio 09 Martedì calendario

RIGORE FINANZIARIO E BASSI DEBITI L’ASIA D LEZIONE ALL’OCCIDENTE - NEW YORK C’ UNA

parte del mondo dove i parametri di Maastricht resistono impavidi, ben rispettati dai governi. una zona ampia: include quasi tutta l’Asia e gran parte dell’America Latina. PROPRIO quando l’Occidente ha perso ogni virtù finanziaria, gli "allievi" emergenti danno lezioni di rigore e buona gestione delle finanze pubbliche.
Col risultato che il trasferimento del potere economico da Ovest verso Est si fa ancora più rapido. La scoperta è bruciante non solo per l’Eurozona ma anche per gli Stati Uniti. Un grafico elaborato dalla banca J. P. Morgan,e ripreso in prima pagina sul Wall Street Journal, produce un effetto-choc. Illustra il rapporto deficit/Pil previsto nel corso di tutto il 2010. Nell’Asia emergente (escluso il Giappone che è più simile a noi) e in America latina la media è 2,8%. Proprio quella parte del mondo che per decenni fu sinonimo di instabilità e alti rischi per gli investitori, oggi si colloca al di sotto del "sacro" limite codificato nel Patto di stabilità dell’Unione europea, cioè il 3% di deficit/Pil. Gli Stati Uniti sono al 9,5%, la Spagna a quota 11,4%, la Grecia raggiunge il 12,7%. Il New York Times pubblica un grafico la cui fonte è il Fondo monetario internazionale, dedicato al rapporto debito/Pil. E’ l’altro indicatore importante per la solidità delle finanze pubbliche di un paese. Lo choc visivo è altrettanto forte. Il debito pubblico italiano misurato dall’Fmi (116%) risulta sei volte maggiore di quello cinese (20%), in proporzione al Pil. Filippine, Vietnam, e Indonesia risultano nazioni dai bilanci statali ben più floridi della Germania. L’India ha il debito pubblico più elevato in quell’area (sempre escludendo l’anomalìa giapponese), ma in realtà arriva alla pari con gli Stati Uniti: ambedue a quota 85%. E la situazione indiana per certi versi è più stabile, perché il 90% del debito pubblico di New Delhi è finanziato dal risparmio interno, elevatissimo. La Malesia, che nel 1997 insieme alla Thailandia fu all’origine dell’ultima grande crisi finanziaria iniziata in un paese emergente, oggi ha un debito pubblico che in proporzione al Pil è un terzo dell’Italia e metà della Germania.
La scoperta che la virtù finanziaria è emigrata a Oriente spazza via antichi stereotipi sulle "piazze finanziarie esotiche". Costringe ad aggiornare le mappe. Un editoriale del Wall Street Journal si chiede: «Com’è possibile che i mercati finanziari americani siano turbati dai problemi di un piccolo Stato come la Grecia, che ha meno abitanti della città di Los Angeles?».
Ma è una domanda retorica, lo stesso quotidiano dà una risposta autocritica. La piccola Grecia è in grado di creare un simile sconquasso mondiale «perché è solo una delle tante nazioni, inclusa l’America, che escono dalla crisi finanziaria gravate dal peso di debiti immensi». Quand’anche si riuscisse a scongiurare il rischio di bancarotta sovrana in Grecia o in Spagnao in Portogallo,i mercati finanziari vedono dietro i guai di quei paesi un problema più esteso: il risanamento dei deficit richiederà sacrifici così severi e prolungati, da potere azzoppare la ripresa economica appena iniziata. La Grecia, osserva lo stesso editoriale del Wall Street Journal, rappresenta meno del 3% del Pil di tutta l’Unione europea, ma una crisi debitoria analoga minaccia la California che pesa il 10% di tutto il Pil americano. Per ora l’attenzione dei mercati è sull’Eurozona: perché lì si concentrano tanti "anelli deboli" che possono innescare reazionia catena. Al Chicago Mercantile Exchange - la Borsa più usata dagli hedge fund - il livello delle "scommesse" contro l’euro è ai massimi.
Dall’inizio di febbraio i contratti future che puntano sulla caduta dell’euro sono saliti da 39.500 a 43.700. Il volume delle puntate anti-euro ha superato perfino il record storico del settembre 2008, quando il crac della Lehman Brothers provocò un panico mondiale e la fuga verso il dollaro come moneta-rifugio. Come allora, anche oggi gli americani osservano questa fuga dall’euro con preoccupazione. Anzitutto perché fa venir meno la spinta all’export made in Usa, un bel sostegno per la ripresa americana quando un euro valeva oltre 1,50 dollari. E poi perché la prospettiva di una frana dell’Eurozona è un’altra grave incognita per la ripresa mondiale.
L’unico presidente d’Europa degno di questo nome, osserva il New York Times, è il presidente della Bce Jean-Claude Trichet, «ma non ha strumenti per aiutare uno Stato malato come la Grecia, e questo conferma la fondamentale debolezza dell’Unione». Intanto Wall Street osserva con qualche apprensione quel che accade sull’altra sponda del Pacifico. La Cina ha rimborsato tutto quel (poco) debito pubblico che aveva verso gli investitori stranieri. Il bilancio statale della Repubblica Popolare nei primi 11 mesi del 2009 era addirittura in attivo. Le riserve valutarie ufficiali accumulate nei forzieri della banca centrale di Pechino superanoi 2.300 miliardi di dollari. Preoccupati per quella che a loro appare la dissipatezza dell’Amministrazione Obama, non vedendo all’orizzonte una exit strategy credibile che riduca il deficit pubblico degli Stati Uniti, i dirigenti cinesi hanno cominciato a diversificare i loro investimenti in dollari. Anziché puntare tutto sui titoli del debito federale (i Treasury Bond), perché non cominciare la scalata all’economia reale, ai bastioni del capitalismo Usa? La China Investment Corporation, il fondo sovrano di Pechino, ha annunciato all’organo di vigilanza sulla Borsa americana di avere investito i primi 10 miliardi di dollari in una serie di grandi aziende americane: in cima alla lista Apple, Coca Cola, Johnson & Johnson, Visa.