Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  febbraio 09 Martedì calendario

AFGHANISTAN: SI NEGOZIA MANESSUNO SA CON CHI

Sembra che la forza internazionale in Afghanistan sia di fronte ad un vicolo cieco e che l’opinione pubblica sia sempre più favorevole al ritiro. Di fronte all’incapacità di riportare(?) la stabilità, i governi (Usa compresi) hanno cominciato a pronunciarsi su date limite entro le quali ricondurre a casa i propri soldati dal «cimitero degli imperi». Dopo la Conferenza internazionale di Londra la strategia è cambiata. Di fronte a un’impossibile vittoria sul campo, si propone di giocare la carta del negoziato con i talebani moderati. Si tratta di una presa di coscienza dell’importanza del ruolo che la diplomazia può avere su un terreno che brucia come quello afghano o piuttosto un celato tentativo di «tirare i remi in barca»?
Pieranna Brisotto pieranna.brisotto@hotmail.it
Cara Signora, alla sua domanda sulle ragioni della nuova strategia (vittoria della diplomazia o ammissione di sconfitta?) rispondo che fra le due ipotesi non vi è contraddizione. Gli Stati Uniti hanno finalmente compreso che la guerra è progressivamente diventata molto simile a quella che l’Urss dovette sostenere fra il 1979 e il 1988. Come i sovietici, anche gli americani credevano che avrebbero combattuto contro uno specifico nemico ( nel caso di Washington Al Qaeda) e che la grande massa della popolazione li avrebbe accolti come liberatori o avrebbe almeno atteso passivamente la fine delle operazioni. L’analisi era sbagliata. Il vero nemico, come negli anni Ottanta per i sovietici, è il nazionalismo pashtun. L’Islam ha la sua parte e contribuisce a rafforzare l’identità ideale dei combattenti. Ma le loro motivazioni sono anzitutto nazionalistiche. Gli americani ne sono ora consapevoli e sanno di essere impegnati in un conflitto asimmetrico che nessun Paese, e in particolar modo una grande nazione democratica, può vincere.
 iniziata così, per certi aspetti, una situazione che ricorda la svolta di Nixon e Kissinger in Vietnam agli inizi degli anni Settanta. Se la vittoria è impossibile occorre negoziare. Ma l’Afghanistan presenta, rispetto al Vietnam, una difficoltà in più. Nel caso vietnamita gli americani avevano di fronte a sé un interlocutore visibile e tangibile: il governo del regime comunista di Hanoi. Nel caso afghano l’interlocutore è una nebulosa composta da istituzioni clandestine, leader alla macchia, capi tribali, una miriade di piccole formazioni combattenti, ciascuna con il suo comandante, e fazioni affiliate ad Al Qaeda. Chi è in condizione di rappresentare credibilmente l’universo talebano? L’Arabia Saudita, che cerca di facilitare il negoziato, ha affidato al capo della sua intelligence il compito di visitare la regione per cercare verosimilmente qualche buon interlocutore. Il presidente afgano Hamid Karzai ha preso contatto con Gulbuddin Hekmatyar, alleato dei talebani e veterano della guerra contro i sovietici. Qualcuno sostiene, probabilmente con ragione, che occorrerà chiamare al tavolo dei negoziati il mullah Omar, capo della Stato talebano prima dell’invasione americana. Ma gli americani vogliono anzitutto che i talebani s’impegnino a espellere Osama bin Laden e Al Qaeda dal loro territorio. probabile che quasi tutti, a questo punto, vogliano il negoziato. Ma tutti, al tempo stesso, vogliono trattare da posizioni di forza. questa la principale ragione dell’aumento del contingente americano e dell’offensiva che sta per cominciare. Obama vorrebbe che il negoziato cominciasse soltanto dopo qualche successo militare. E i talebani, beninteso, vorrebbero cominciare a negoziare dopo avere dimostrato sul terreno che gli Stati Uniti non sono in grado di batterli.
Sergio Romano