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 2010  febbraio 09 Martedì calendario

FRAMMENTO DEI FRAMMENTI CHE RISPONDONO ALLA VOCE "ALLEVA, ENRICO"



1999
Il professor Enrico Alleva, etologo, a proposito di un altro cavallo, ”Hans l’intelligente”: «Questo animale era in grado di fare le operazioni, contando fino a quindici. Alle domande del padrone sbatteva lo zoccolo per terra fino al numero che corrispondeva al risultato del calcolo. Si è riusciti a dimostrare che quell’animale aveva ormai creato un rapporto affettivo talmente forte con il suo padrone da riuscire a interpretare il segnale impercettibile che il proprietario dava, in maniera inconscia, nel momento in cui il cavallo arrivava al numero esatto». Sui rapporti di ”empatia” coi cani: «I mesi estivi, quando molti cani vengono abbandonati, potrebbero essere quelli più adatti per prendersi cura di qualcuno di loro e far nascere quel grande legame affettivo che è alla base di tutti i tipi di comunicazione».
Gianfranco Manfredi, Rossella Cravero, Il Messaggero 26/06/1999

2006
Oggi in Italia una famiglia su tre ne ha un esemplare [di gatto] in casa. «Se in passato il gatto viveva all’aperto ed entrava nelle abitazioni solo per poche ore, oggi è un animale che ha assunto una valenza familiare», sottolinea Enrico Alleva, etologo dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss). «Basti pensare che i padroni comprano cibo sempre più adatto a lui e lo considerano una vera e propria spesa».
MACCHINA DEL TEMPO MARZO 2006

2008
Mente animale (Einaudi Stile Libero, pp. 212, euro 12), libro - altrettanto lieve e vero - in cui Enrico Alleva, etologo e antico collaboratore del manifesto, raccoglie 34 scritti (quattro dei quali apparsi appunto sul nostro giornale) spalmati su 24 anni, dal 1984 a oggi. La battuta introduce il capitolo in cui Alleva descrive la varietà di specie animali che regolano la propria sessualità in regime di «monogamia/monoandria adultera» o «adulterio monogamico/andrico», e se ne chiede il perché.
Avevo incontrato lo stesso interrogativo nel Terzo scimpanzè di Jared Diamond che vi dedica un capitolo (intitolato appunto «la scienza dell’adulterio»). Non è l’unico caso in cui, in tempi diversi, Alleva e Diamond (ambedue ornitologi di origine) si pongono gli stessi problemi. Perché mai - si chiede Alleva - i fagiani maschi hanno una coda così sgargiante, che a intuito dovrebbe costituire un handicap evolutivo, visto che rende questo gallinaceo più visibile da lontano e quindi più facile vittima dei predatori? La stessa domanda se la pone Diamond a proposito dell’«uccello giardiniere» della Nuova Guinea il cui maschio costruisce addirittura una capanna con giardino antistante adornato da ghirigori di pietruzze. Tutti e due vogliono illustrare l’handicap principle, per cui le femmine di una specie preferiscono accoppiarsi con i maschi che, sormontando questo handicap, hanno dimostrato di essere più attrezzati a sopravvivere e quindi capaci di generare discendenza più resistente.
Diamond e Alleva condividono parecchie caratteristiche. Ambedue sono dotati di una curiosità senza limiti che li fa appassionare a viventi lontani tra loro: insetti, mammiferi, uccelli, rettili (protagonisti delle pagine di Alleva sono pipistrelli e squali, foche e orsi, api e scoiattoli). Ambedue nel quadro concettuale darwiniano si pongono domande impreviste: Perché i frutti sono sempre dolci e colorati? si chiede Diamond; perché gli uccelli cantano? si chiede Alleva. Li accomuna anche una scrittura piana e gradevole: entrambi hanno imparato la lezione del compianto Stephen Jay Gould e dei suoi fantastici libri (Il sorriso del fenicottero, Quando i cavalli avevano le dita, Il pollice del panda...), un’arte di cui Alleva si era dimostrato padrone già con il delizioso Il tacchino termostatico (Theoria, 1996), un’arte fatta in eguale misura di umorismo, affetto e curiosità.
Un esempio: nelle sue vesti di direttore del reparto di neuroscienze comportamentali dell’Istituto superiore di sanità, Alleva dedica un lungo capitolo alla «topologia», nel senso di etologia dei topi e dei ratti, e racconta le differenze tra gli specialisti dell’una specie (ratti) e dell’altra (topi): «Come altre grandi categorie esistenziali - lettori di gialli e lettori di fantascienza, amanti dei cani e amanti dei gatti - questi due mondi, pur avendo affinità apparenti, nascondevano profonde differenze di temperamento». Alleva non fa mistero della sua appartenenza alla specie degli amanti dei cani: in tutto il libro non c’è una sola frase completa dedicata ai gatti, mentre almeno cinque scritti sono dedicati ai canidi, forse in ossequio al suo amato Konrad Lorenz che tanto ha scritto di Bully, Wolf I e Bubi: l’influenza di Lorenz si sente già nel capitolo sulla pavona Ginetta, descritta con un affetto che ricorda quello di Lorenz per l’ochetta Martina (nell’Anello del re Salomone). Sgorga dal più profondo la tesi di Alleva, a proposito del rapporto cane «padrone», di «una sostanziale parità di diritti di espressione della socialità di tutti noi mammiferi... se capaci di entusiasmanti empatie tra menti a due e quattro zampe».
«Empatia» è la parola chiave, perché in realtà tutti gli scritti della Mente animale puntano contro un unico bersaglio, e cioè «l’antropocentrismo», quell’impostazione culturale che mette l’uomo in cima a tutte le specie animali: «Vertice assoluto della storia e della vita, o creatura angeliforme (transizione tra il bestiale e il divino), l’uomo resta tra gli animali terrestri quello più spocchioso, perché il solo in grado di mettere per iscritto maldicenze sul conto degli altri abitatori del pianeta». Alleva nota che la caccia è - in origine - attività simmetrica: uomini che cacciano animali, animali che cacciano uomini. Ma non la domesticazione, «la trasformazione genetica di esseri liberi, prodotti dal mondo non umano, che dall’uomo vengono presi e indelebilmente trasformati a suo uso, o a suo piacere». L’uomo ha creato centinaia di razze più grosse, più grasse, «più belle e più strambe, fenotipi prostituiti all’umano diletto, esseri che nascono, vivono e muoiono semplicemente per strappare all’uomo un’occhiata ammirata o un sorriso».
La lotta contro l’antropocentrismo si articola su vari fronti. Uno è il mito del «cervellone»: una specie è più evoluta solo se il peso relativo del suo cervello (rispetto al peso del corpo) è più grande, idea che si dimostra una vera bufala. L’altro è la teoria del cervello a tre stadi, diffusa dal film di Resnais e Laborit Mon oncle d’Amérique, da cui i mass media hanno dedotto solo che, se non è tenuto a freno, il cervello rettiliano può svegliarsi con la sua innocente e indomabile ferocia. Un altro ancora è l’uso, a fini specificamente umani, della metafora animale da Esopo a La Fontane: «Si parte da caratteristiche realmente presenti e osservabili in una specie animale, che vengono umanizzate per creare accorte metafore moralizzanti: trasformandosi nell’incarnazione di una qualità umana, la bestia diventa ’disumanamente perfetta’ o, a trattti, ’disumanamente immorale’». Non a caso Alleva riconosce a Lorenz il merito di aver cercato di «andare a riscoprire l’uomo che c’è nell’animale» più che l’animale che c’è nell’uomo.
Un lungo esercizio di understatement teorico dunque questo libro. Se un appunto può essergli fatto, è che almeno per gli scritti più lontani nel tempo, un aggiornamento il lettore lo avrebbe desiderato. C’è per esempio un capitolo del 1988 a proposito di una trasmissione della tv inglese sulla strage di scimpanzè provocata dalla ricerca sull’Aids, virus di cui - per loro iattura - questi primati sono portatori sani, caratteristica che ne fa la preda di cacciatori di frodo che li sterminano a migliaia. Bene, noi lettori vorremmo sapere vent’anni dopo se questa strage continua ancora. Ma complessivamente è la gravità e la serietà dei problemi ad avere il sopravvento: hanno gli animali il senso del tempo? L’«aggressività» è definibile al di fuori di una reificazione? In cosa consiste il «senso di colpa» di un animale se, come pare dimostrato, essi lo provano? Domande che senza Alleva non ci saremmo mai poste, ma che, una volta additateci, ci appaiono inaggirabili.
Marco D’Eramo, il Manifesto 16 gennaio 2008

2009
Oltre un terzo del consiglio scientifico dell’Istituto [TRECCANI], composto da venti membri, è formato da Italianieuropei a vario titolo (cioè appartenenti al comitato scientifico o a quello di redazione della rivista edita dalla fondazione): oltre ad Amato, ci sono Enrico Alleva, Luciano Canfora, Michele Ciliberto, Paolo Guerrieri, Carlo Ossola e Mariuccia Salvati.
Alessandro Gnocchi, Il Giornale 29/10/2009