Silvia DཿOnghia, il Fatto Quotidiano 9/2/2010;, 9 febbraio 2010
C’ERA UNA VOLTA IL TEATRO CIVILE (*
per vedere domande e risposte aprire il frammento) - Lo scorso primo gennaio ha compiuto
60 anni, ma a guardarlo negli
occhi e a sentirlo parlare, Marco
Baliani ha ancora tutta la grinta
di quando ha cominciato, nel
1975, fondando il gruppo ”Ruota -
l i b e ra ”. Lo testimonia il suo multiforme
impegno romano di febbraio:
fino al 28, l’inventore del
teatro di narrazione è infatti al
Teatro India con ”Piazza d’Italia”,
una messa in scena tratta
dall’omonimo romanzo di Antonio
Tabucchi. Dal 16 al 28, sempre
all’India, riproporrà tre momenti
fondamentali del suo percorso
(Kohlhass, Frollo e Tracce)
e le sere del 20 e del 27, assieme ai
giovani dell’Accademia d’Ar te
drammatica Silvio d’Amico, due
notti bianche del racconto. Infine
il libro, ”Ho calvalcato in groppa a
una sedia”, che sarà presentato il
22 febbraio in Indiateca.
E’ il titolo di un bilancio?
’Credo che si sia un po’ esaur ita
una fase, per me ma non solo per
me. Il teatro di narrazione è nato
come fenomeno di crisi, un elemento
di crisi. Non è un elemento
totalmente innovativo della scena
italiana, che per innovarsi
avrebbe bisogno di una nuova
drammaturgia corale, collettiva,
costruita sul corpo degli attori.
Una cosa che ancora non c’è. Il
teatro di narrazione nacque perché
alcuni attori trovarono molto
stretta la gabbia produttiva e
drammaturgica con cui si era andati
avanti fino a quel momento e
provarono a fare una sorta di
estremismo scenico. E quindi a ridurre
tutto il mondo a un corpo
che narra. Un’esperienza bellissima,
che a me ha dato tanto e che
mi ha permesso di capire come lavorare
con alcuni metodi, come
l’allenamento allo stupore, la capacità
di ascolto e di relazione”.
Anche perché è l’attore davanti
al pubblico, non esiste il pers
o n ag g i o.
Sei la persona. Il successo che ha
avuto il teatro di narrazione ha a
che fare con questo: il pubblico
veniva a vedere una persona che
gli raccontava una storia, non era
costretto a credere a un persona
ggio.
Si aspettava all’epoca questo
successo?
No. Anche perché era veramente
qualcosa di completamente nuovo
dal punto di vista dell’a t t o re ,
della drammaturgia. Invece dal
punto di vista epocale non abbiamo
inventato nulla, è uno che si
siede e racconta una storia. La novità
è l’interesse per la persona
più che per il personaggio: tu vai a
vedere Baliani, non vai a vedere il
personaggio tal dei tali. Poi c’è
una sorta di risposta a un’overdo -
se di immagini: nel teatro di narrazione,
lo spettatore ascolta,
non guarda. C’è poco da guardare.
E quindi è costretto a fare un
lavoro di impaginazione immaginativa.
Ognuno si fa un film di
quello che sta vedendo e ascoltando.
Questo è un lavoro di fantasia
che ormai negli altri mezzi di
comunicazione non c’è più.
Il discorso della personalizzazione
riguarda in generale gli
ultimi 20 anni, penso per
esempio alla sfera politica. Il
teatro, però, a differenza della
politica, non ha creato mostri.
L’oralità ha sempre la magia nera e
la magia bianca. Tu con l’o ra l i t à
puoi convincere le persone a
mettere le bombe per saltare in
aria (non lo fa la scrittura del Corano,
lo fanno quelli che riescono
a parlare sull’interpretazione del
Corano): è una magia nera. La parola
può essere molto più potente
della scrittura. Il teatro l’ha usata
più nella direzione della magia
bianca, perché parte da un sistema
etico diverso da quello della
politica. Il teatro non deve convincere
qualcuno, non deve fare
proseliti, il suo potere non deriva
dal fatto che ti porti dietro dei fan
per tutta la vita. La sua forza sta nel
fatto che in quell’occasione irriproducibile
sei riuscito a comunicare
qualcosa di urgente che avevi
dentro. In questi anni non si è
analizzato molto come le immagini
siano state sempre veicolate
da parole. Berlusconi è forte non
perché va tante volte in televisione,
ma perché ha tirato fuori dei
racconti che in quel momento andavano
bene agli italiani, che avevano
perso le grandi storie. Il cristianesimo,
il comunismo erano
delle grandi invenzioni di narrazione.
Finite quelle non c’era più
nulla. Allora lui si è inventato la
storia da imbonitore, che ha fun zionato. Però è sempre oralità,
veicolata dalle immagini.
Questo periodo del teatro, dicevamo,
si è concluso...
Tutti quelli che si sono messi a fare
narrazione hanno pensato che
era più importante il teatro civile
che la fabula. Una narrazione funziona
se c’è una fabula dietro, fatta
di conflitti. Se comincio a diventare
un professore, che ti spiego
chi sono i buoni e chi sono i
cattivi, entro in un altro uso del
teatro, politico-didattico-didascalico.
C’è polemica nelle sue parole?
No. Sono anche dispiaciuto perché
quasi tutto il teatro di narrazione
oggi è teatro civile. Anche
questo è utile, perché si tirano
fuori tutti gli omissis della nostra
storia. Ma si è persa la forza di cercare
invece una fabula dentro a
quel conflitto: se devo raccontare
Mattei, io racconto la storia di
quello che guidava l’e l i c o t t e ro
quel giorno. Mi sembra che anche
il pubblico cominci a disaffezionarsi.
Se sei un Paolini ad esempio,
che è molto bravo, allora ti
vado a vedere. Ma c’è una pletora
di altri che sono insopportabili.
In quale direzione sta andando?
Io mi sono un po’ fermato. Narrazioni
nuove non ne ho fatte. Se
la dovessi pensare, vorrei sperimentare
altre cose, per esempio
un intreccio forte col suono, con
la musica, con la registrazione.
Ora sto usando le cose che ho imparato
per lavorare con altri attori,
come in ”Piazza d’Italia”. E’ un
lavoro in direzione della drammaturgia
narrativa corale.
Come legge i tempi in cui stiamo
vivendo? Che succede oggi
in questa grande ”piazza d’Ita -
lia”?
Dal punto di vista teatrale, non c’è
un teatro che sta riuscendo a raccontare
questo paese. Non c’è
una drammaturgia che riesca a
raccontarsi come specchio del
paese. Perché non riusciamo a vederlo.
C’è una sorta di addormentamento
della percezione, più
che delle coscienze. La televisione
degli ultimi 20 anni ha contribuito
a educare una forma percettiva
del mondo dove sembra che funtutto
accada come dato di realtà.
E’ come se le persone non riescano
ad immaginare altro rispetto a
quello che viene proposto loro in
televisione. Non si ha la capacità
di inventare delle storie che si intersecano,
come se non ci fossero
più maglie in cui insinuare personali
fantasie di cambiamento. In
questo la sinistra è stata una cat
a s t ro fe .
Ma come, la sinistra portatrice
di cultura?
Non è stata capace di inventare
storie nuove. Io ho votato Veltroni,
ma dopo che hai detto ”We
can”, noi possiamo... Possiamo fare
che? Qual era la storia che c’e ra
dietro? Era l’idea di un paese normale,
ma un paese normale non è
una storia, è una noia mortale.
Non voglio la normalità. La gente
ha bisogno di immaginarsi altro
rispetto alla propria realtà, altrimenti
è perduta. La sinistra non è
stata capace di capire che era il
momento di inventare nuove storie,
nuovi oggetti su cui sognare.
E’ chiaro che in quel contesto
hanno vinto le storie da piazzisti,
che hanno raccontato l’Italietta
che c’è sempre stata.
E’ un po’ la morte degli ideali
pasoliniani.
L’aveva già capito nel ”70, lo diceva:
la prima educazione avviene
attraverso le cose che vedi, non i
grandi discorsi. Quello che vedi ti
educa.