Margherita De Bac, Corriere della Sera 08/02/2010, 8 febbraio 2010
GLI SPRECHI DEI PASTI IN OSPEDALE
Duecentoquaranta milioni di pasti all’anno. E il 45% viene lasciato nel piatto. Scarti costosi. Per i bilanci della sanità, in continuo debito d’ossigeno. E per i pazienti che, una volta dimessi, rischiano di tornare a casa con qualche chilo in meno. La malnutrizione è uno dei problemi che il ministero della Salute vorrebbe risolvere attraverso interventi suggeriti da un gruppo di esperti nominati dal sottosegretario Francesca Martini. Ne soffrono dal 20 al 60% dei ricoverati, percentuale stabile dagli anni ’70. Sono pronte e andranno presto in Conferenza Stato-Regioni delle linee guida per far mangiare degnamente i clienti degli ospedali, ovunque essi alberghino, da Trapani ad Aosta. Il cibo è terapia ed è ormai accertato che i tempi di guarigione sono strettamente legati all’alimentazione. Che deve risultare gradevole al palato oltre che adatta dal punto di vista nutrizionale e dietetico.
Il servizio di ristorazione, come confermano anche le ultime rilevazioni di «Cittadinanzattiva», è uno dei punti deboli dell’assistenza sanitaria sebbene negli ultimi anni siano stati compiuti progressi in sicurezza e qualità. L’associazione italiana di dietetica e nutrizione clinica, l’Adi, ha svolto un’indagine per misurare il malcontento degli avventori in reparto. Su un campione di oltre 760 vassoi esaminati a pranzo e oltre 460 a cena per cinque giorni consecutivi l’8% vengono rifiutati di sana pianta, nel senso che il pasto resta incellofanato. Avanzi che a un nosocomio di circa 600 posti letto pesano mediamente 136 mila euro all’anno. Il 50% vengono consumati in parte, il resto per intero. Non sempre però i rifiuti sono determinati dal mancato gradimento. Il 40,4% dei malati riferiscono di aver digiunato per problemi di salute (anoressia, nausea, vomito). Tra quelli che invece mangiano, per intero o parzialmente, il 41,3% lamentano pietanze insipide, il 7,4% crude, l’8,3% scotte, il 2,6% adducono altri motivi. «Chiariamo. Spesso non possiamo usare il sale perché la dieta deve essere iposodica», precisa Francesco Leonardi, segretario nazionale Adi, direttore dell’unità operativa di dietologia al Cannizzaro di Catania, dove le ordinazioni del menù preferito vengono digitate su palmari online e il pasto servito su vassoi termici personalizzati.
Paradossalmente l’indice di apprezzamento dei consumatori ( customer satisfaction) non è poi così negativo. Sul primo e secondo piatto il 37,5% esprimono un giudizio tra buono e ottimo, il 48% assegnano un discreto, il 14,5% scadente. Cambiano le percentuali su contorno e frutta: 44% buono-ottimo, 48,5% discreto, 7,5% scadente. Diversi fattori influiscono sul successo del menù. Il tempo che trascorre dal momento in cui il vassoio esce dal punto di cucina e arriva al cliente. La qualità delle materie prime, definite sul capitolato d’appalto. La varietà di scelta. L’alternanza e la stagionalità dei menù. Il rispetto della gastronomia locale. Per finire con l’accuratezza della presentazione. Quando le posate sono d’acciaio anziché di plastica, il voto è più alto. Se al Cannizzaro si può optare tra 5 primi e 3 secondi, altrove il menù è fisso e ripetitivo. «Molto dipende dall’attenzione dell’economato, l’ufficio che organizza il servizio ristorazione – dice Gianfranco Tarsitani, responsabile dell’igiene dell’ospedale universitario Sant’Andrea di Roma’ Oggi però disponiamo di soluzioni tecniche vantaggiose». Un esempio è il sistema di trasporto refrigerato. Cibo preconfezionato, dunque precotto, trasportato in reparto in un «ambiente modificato» cioè con azoto liquido e anidride carbonica. Sapore e temperatura non vengono alterate. «Il risultato è gradevole, molte aziende del nord si regolano così. Da cucine centralizzate esterne e anche molto distanti i piatti raggiungono la meta con sapore e temperatura accettabili». La maggior parte dei nosocomi italiani (6 su 10 secondo una ricerca della Regione Piemonte) hanno appaltato il servizio a ditte che provvedono con vassoi confezionati nei loro impianti o nelle cucine interne dell’ospedale da cuochi privati. Così al Sant’Andrea, dove il cibo impiega al massimo 20 minuti per raggiungere il letto. Sul piano della prevenzione delle tossinfezioni, terrore degli igienisti, è fondamentale che gli alimenti non vengano mantenuti troppo a lungo a tiepide temperature, alleate dei batteri.
Il Careggi di Firenza è uno dei pochi nosocomi dove hanno preferito gestire direttamente la mensa in locali e con personale dipendente (ai fornelli si alternano 32 cuochi). «Per ogni ricoverato spendiamo 11 euro al giorno, tra colazione, pranzo e cena. I catering esterni a volte ne richiedono 15. Usiamo carrelli multi porzione, il paziente può scegliere al momento tra 3 primi, 3 secondi e altrettanti contorni», dice Tommaso Di Massa, responsabile dell’area vitto di quella che è considerata una delle più grandi aziende ospedaliere italiane. Lo svantaggio è che, come in aereo, il passeggero più lontano deve accettare ciò che è rimasto.
Il menù viene cambiato ogni due settimane. La qualità, qui come altrove, è determinata dalle materie prime previste nei capitolati d’appalto. In generale la selezione dei fornitori viene orientata al 70% dal prezzo. Secondo Di Massa la qualità viene comunque preservata: «Da noi non entrano le marche del discount. I nostri formaggini, senza polifosfati, provengono dal miglior produttore italiano. Il latte è lo stesso degli alberghi a 5 stelle». «Cittadinanattiva» ha di recente segnalato il caso di Livorno. La pasta, a detta di un consumatore, avrebbe lo stesso sapore della pera. Se si gira per l’Italia, si scoprono in compenso prontuari dietetici sopraffini. Ad Asti, scrive la rivista Tecnica Ospedaliera, i malati assaporano prelibatezze. Verdure fresche locali, carni di pura razza piemontese della val Bormida, robiola di Roccaverano e Coccolato, latticini del Pianalto, polli di Tonco, riso Carnaroli e pasta di Gragnano.
Il capitolato, ricorda Leonardi, rappresenta l’unico strumento in grado di eliminare la discrezionalità e offrire il meglio agli utenti specie quando viene rispettata la normativa europea che stabilisce come si dovrebbe procedere per l’aggiudicazione dell’appalto. Sessanta punti per la qualità, 40 per il prezzo. Spesso purtroppo la regola salta e prevalgono valutazioni di ordine economico.
Margherita De Bac