Paolo Valentino, Corriere della Sera 08/02/2010, 8 febbraio 2010
E LA SUPERPOTENZA SCOPRE D’ESSERE FRAGILE
Bisognerà accertare con precisione le cause della spaventosa esplosione del Connecticut. Ma senza voler trarne conclusioni affrettate, è un fatto che l’incidente si aggiunga a una nutrita lista di disastri, naturali e non, che da qualche anno sollevano interrogativi molto seri sullo stato delle infrastrutture della Superpotenza americana, la sua preparazione di fronte alle emergenze, l’efficacia dei suoi standard di sicurezza.
Se 200 mila famiglie dell’area metropolitana intorno alla capitale federale, si devono ritrovare per tre giorni senza elettricità dopo una bufera di neve, fosse pure la più intensa degli ultimi 90 anni, un problema ci dev’essere. Come dev’esserci pure se nelle stesse ore, a Los Angeles, piogge torrenziali hanno provocato frane di fango, che hanno distrutto decine di case, imposto l’evacuazione di altre 500 dimore in diverse contee e la chiusura di una delle principali autostrade della regione. Causa indiretta della frane, gli incendi di alcuni mesi fa, molti di origine dolosa, che hanno distrutto l’intera vegetazione sulle colline della città degli angeli.
Ma queste, almeno in parte, sono pur sempre opere di un’arcigna Madre Natura. Quando però, esplode il serbatoio di una fabbrica chimica, pieno di diluente, com’è successo a Houston il 9 dicembre scorso, il discorso cambia. E punta sul rispetto delle garanzie di sicurezza, cui le autorità pubbliche federali o statali non sanno o non possono costringere le aziende private.
E’ però la condizione generale delle infrastrutture degli Stati Uniti a sollevare le maggiori preoccupazioni. Sono i ponti, le strade, le condutture, i cavi elettrici, gli acquedotti ad essere in uno stato penoso. Lo sa molto bene il presidente Obama, che ha deciso di dedicare una parte importante dei 900 miliardi di dollari del pacchetto di stimolo all’economia, a lavori di restauro e ammodernamento della nervatura del Paese: «La nazione che in primo luogo sono interessato a ricostruire è la mia», ha detto in dicembre all’Accademia di Annapolis.
Gli esempi di questa fisica debolezza interna dell’America sono sotto gli occhi di tutti. Lo scorso 5 luglio aMerriville, in Indiana, un ponte è crollato causando decine di feriti: non aveva sopportato il peso della folla, che la sera prima si era ammassata sull’arcata per vedere i fuochi d’artificio dell’Independence Day: 12 ore prima e sarebbe stata un strage.
Il caso più tragico ed emblematico resta però il crollo del ponte 9340, nell’estate del 2007, sulla Interstate 35 a Minneapolis. All’ora di punta, si afflosciò sul Mississippi, provocando decine di morti e danni per centinaia di milioni di dollari. Fu lo squarcio che rivelò un paesaggio disastrato. Come ha poi rivelato un rapporto dell’American Society of Civil Engineers, oltre 160 mila dei quasi 600 mila ponti degli Stati Uniti hanno deficienze strutturali o sono obsoleti sul piano funzionale.
Come spiega Stephen Flynn, studioso del Council on Foreign Relations, «non sono solo i ponti o le strade americane ad essere vicini al punto di rottura, il fatto è che abbiamo distrutto il patrimonio infrastrutturale ereditato dalle generazioni precedenti: la nostra elettricità viene da un sistema di generatori, linee e trasformatori vecchi di decenni, il nostro sistema di trasporti è ormai celebre solo per treni di terza classe, autostrade intasate e un sistema di controllo aereo quanto meno primitivo». Più grave ancora, secondo Flynn, «è che tutti i grandi progetti di lavori pubblici del Ventesimo secolo (le dighe, i canali, i tunnel, i ponti, gli acquedotti e la rete autostradale inter-statale creata da Eisenhower) hanno ormai superato il numero di anni per cui erano stati costruiti».
Da Minneapolis al Connecticut, ci saranno sicuramente ragioni tecniche specifiche, forse uniche e irripetibili, per ognuno dei disastri che la cronaca registra. Ma ci sono pochi dubbi che oggi gli Stati Uniti, la più forte economia del mondo e la prima Superpotenza strategica, accusino una preoccupante fragilità della loro fabbrica interna.
Paolo Valentino