Paolo Fallai, Corriere della Sera 07/02/2010, 7 febbraio 2010
«LA VITA E’ UN ESORDIO. ANCHE A 80 ANNI»
«Benvenuti a casa del neodecrepito». Si fa appena in tempo ad entrare nell’abitazione di Sylvano Bussotti prima di essere travolti da uno spirito che sovrasta l’età anagrafica. Se quest’ultima veleggia serenamente verso gli ottanta, l’altro ricorda che c’è tempo e «il tempo è vita, cioè una ininterrotta curiosità. A proposito: neodecrepito per finta s’intende».
Come si fa a definire, oggi, in un tempo di esasperata specializzazione, la poetica di un artista che le ha veramente provate tutte? Potremmo cominciare elencando le «sue» specializzazioni: «compositore e interprete, pittore, letterato, scenografo, regista, costumista, attore». Questo, almeno, riporta la biografia del suo sito internet (wwww.sylvanobussotti.org), ma poi va a finire che scopri che manca qualcosa: «I pupi». Prego? «Le marionette, ho dedicato più di uno spettacolo ad Arlechin batòcio». L’uomo è fatto così, altrimenti non avrebbe scritto musica per Cathy Berberian, cercato di convincere Patty Pravo che era più brava come compositrice, esposto Moana Pozzi alla Biennale di Venezia come una Madonna, e di fatto rivoluzionato il termine stesso di «regia» per l’opera lirica. «Ma sapesse quanto è faticoso’ commenta sorridendo’ occuparsi di Arti belle e quanto è gravoso per chi lo fa». Ma oggi ci sarebbe spazio per un nuovo Bussotti? «Bisogna essere sinceri e dire di no, siamo dominati da un’apparecchiatura (indica la grande tv che domina una parete del salotto, ndr) che naturalmente era accesa fino a un minuto prima che lei entrasse. Quell’aggeggio mette in serio pericolo qualunque sentimento, dall’eseguire Mozart alla mia amata Wanda di Sentimental. Sa che ho fatto in tempo a vederla cadere da una scala?».
Bussotti è forse il campione più rappresentativo di un’avanguardia musicale che ha travolto l’idea stessa di confine, concentrandosi sull’immagine e sul senso stesso dello spettacolo. Per lui, che cita sempre l’amato Monteverdi, parla la volontà di stupire: chissà se potrebbe riproporre La Passion selon Sade messa in scena a Palermo nel 1965, alternando la bacchetta da direzione d’orchestra alla frusta. «Non è un momento felice. Ma a me torna sempre in mente che cosa diceva Thomas Mann, nei periodi finali della sua esistenza, incontrando migliaia di giovani in tutto il mondo: "Quando io sarò profondamente sotto la terra eccetera, eccetera... e voi profondamente vivi...". Da teatrante più che da letterato, prendeva l’applauso e andava avanti. Quando il talento viene scoperto e ci parla poeticamente, si fa ascoltare da solo. Il talento se c’è si impone».
Sylvano Bussotti parla nella sua bella casa, l’attico milanese al Giambellino dove vive dal 2002 insieme al compagno Rocco Quaglia, ballerino e coreografo cui ha dedicato tanta della sua produzione artistica. Un edificio moderno, a linee forti, dominato da cemento e vetri. «Ho sempre amato tanto Milano, anche quando non ci vivevo: corregge la fiorentinità, mentre a Firenze si rimane un po’ straniti. Io l’ho chiamata a lungo "La bella addormentata nell’orto", ma quegli orti li ho coltivati a lungo e spero di poterlo fare ancora per tanto tempo».
Per lui, abituato ad essere osteggiato, amato, combattuto e vezzeggiato, i festeggiamenti sono una costante: cominciarono in Germania per i suoi sessant’anni, li organizzarono a Milano quando decise di trasferirsi definitivamente, ora è proprio la sua Firenze a organizzare – grazie all’iniziativa del museo Marino Marini – un mese di omaggio trasversale, cercando di abbracciare (dal 17 febbraio) la vastità della sua produzione. A cominciare da Rara Film, la pellicola-archivio delle avanguardie alla fine degli anni 60 (girata dal 1967 al 1969), con la presenza di volti e corpi di un’intera stagione, dal Living Theatre a Laura Betti; il film, appena restaurato, è accompagnato da una partitura recente di Bussotti.
D’altronde, come potrebbe non essere un amore dannato, il legame tra Bussotti e la città dove è nato, figlio di un usciere del comune di Firenze che firmava permessi alla moglie di Luigi Dallapiccola per aggirare le leggi razziali e aveva sempre i biglietti del teatro Comunale: « stata quella la mia vera scuola – racconta divertito’ in quella normale mi sono fermato alla quarta elementare». In compenso ha cominciato a cinque anni lo studio del violino con Margherita Castellani, «che non finiva di ripetermi, quelle due esse sullo strumento significano "studia sempre". Il risultato? Ho composto il mio primo brano a sei anni. Ho avuto il mio primo pianoforte in piena guerra mondiale. Me lo regalò una zia centenaria, scomparsa l’anno scorso. Un quarto di coda». Dev’essere indimenticabile un regalo come questo? «Oh, è difficile dimenticarselo, è al piano di sopra. Devo proprio decidermi a farlo restaurare. Suona ancora benissimo, sa...». Ed è proprio lì, al centro di una stanza piena delle partiture, catalogate sì e no, in semplici librerie. Tutto, pareti e librerie, è coperto da una infinita serie di collage: i biglietti teatrali, fotografie, titoli di giornali, recensioni, fiori e decine di disegni, schizzi, caricature. Sembra quasi che Sylvano, in quest’ambiente più raccolto, all’ultimo piano, abbia scelto di vivere circondato dalla sua vita. Colpisce il tratto dei disegni, lontano dalla precisione quasi maniacale delle partiture: « vero, ho guadagnato più vendendo le partiture illustrate che con le note. Ma vedere un mio quadro al Musée d’Orsay è stata un’emozione che non dimentico».
Una vita segnata dagli incontri: Piero Farulli, «Ha appena compiuto 90 anni, una forza della natura»; Luigi Dallapiccola «Un uomo minuto che poteva portare partiture immense che lo coprivano tutto»; lo zio, Tono Zancanaro, e il fratello Renzo, con cui ha condiviso tanti lavori firmati dalla «bottega Bussotti»; Cathy Berberian, la Voce dell’avanguardia: «Mi mancava tanto che ho dovuto risuscitarla»; Gianandrea Gavazzeni: «Un genio che ha sempre difeso le mie regie»; le «gelosie» di Pier Paolo Pasolini che mandava Ninetto Davoli a vedere i suoi film. La Parigi di Max Deutsch, Pierre Boulez, Heinz Klaus Metzger, Maurice Fleuret; Darmstadt dove incontrò John Cage e David Tudor. Roma e la grande casa di Genazzano e l’affetto per Patty Pravo, alla quale è riuscito a far cantare una sola nota in una sua opera per centonovantuno interpreti. «La Strambelli noi amici la chiamiamo Strambubi. Ha sbagliato a cantare, era nata per comporre musica. Per archi, direi. In un piccolo video gliel’ho anche fatto fare, ma la musica era mia». Moana Pozzi: «L’ho portata alla Biennale del 1991, ma in realtà volevo Prince, o Mina. Era bellissima». Deve avere avuto guai con i consiglieri d’amministrazione. «Meno di quanto sembra. Io, arruolato dalla sinistra, spesso ero difeso dai democristiani». Carmelo Bene: «Quando eravamo in scena insieme, avevo più costumi io di lui. un vanto. Indimenticabili le sue telefonate notturne per avvertirmi che ero il più grande musicista di tutti i tempi e per commissionarmi un quintetto per tromboni». Non l’avrà scritto? «Mai».
Ma perché quella «y» nel nome? un vezzo, addirittura ne ha fatto il titolo di uno spettacolo «Sylvano/Silvano»? «Macché, è stato un refuso. successo agli esordi, mi trovavo a Aix-en-Provence per un corso estivo. Uscì una recensione su un settimanale di Marsiglia e il giornalista mi cambiò il nome in Sylvano. Mi attaccai al telefono e lo insultai ma quello rispose tranquillo che in francese si scriveva così. Quella «y» prese a piacermi, è una specie di omino a braccia aperte in mezzo al nome. E poi, se Rembrandt aveva usato tante firme diverse, perché non potevo averne io almeno due? Mi tenni Sylvano».
E ora cosa fa? «Mediamente il pianista. Alla mia età si dorme poco, cioè si tende a perdere poco tempo a dormire. E poi scrivo. Ho ben quattro composizioni nei cassetti, sto rileggendo Moby Dick e tutto Tolstoj. Mi interessa molto un episodio della vita di Luca Signorelli, la storia dell’antico Giappone e una leggenda dell’estremo Nord dell’Europa: un ragazzo Cenerentola che suona il violino sommerso dalla cenere. L’opera d’arte è soggetta a movimenti tellurici, scompare nel profondo e poi riemerge quando meno te l’aspetti. Ma, insomma, secondo lei chi si può permettere di tenere quattro opere in un cassetto? Solo un esordiente. Lo vede che sono giovanissimo?».
Paolo Fallai