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 2010  febbraio 06 Sabato calendario

ROMITI E GLI AIUTI AL LINGOTTO: NO AGLI ATTEGGIAMENTI GUASCONI

«Questa storia di una Fiat salvata e foraggiata dallo Stato è una leggenda da sfatare. Si leggono cifre incredibili...». La Fiat, dottor Romiti, avrebbe ricevuto dallo Stato l’equivalente di 250 mila miliardi di lire...«Magari! Magari avessimo potuto disporre di queste cifre!». La vulgata parla di profitti privatizzati e perdite socializzate...«Ecco, vede, un simile approccio, che purtroppo è abbastanza diffuso, significa mancare di rispetto non tanto a me, a chi è venuto dopo di me, e a chi c’era prima di me: Vittorio Valetta, un grandissimo. Significa mancare di rispetto a decine e decine di migliaia di italiani che in questi anni hanno lavorato alla Fiat. Ingegneri tra i più bravi del mondo, designer invidiati da americani e giapponesi per la loro inventiva, manager, e un popolo di operai, molti dei quali venuti dal Sud. Gente legata per la vita all’unica grande impresa italiana rimasta, che ha resistito a pressioni fortissime, alla sfida del comunismo e del terrorismo, a un sistema dominato dalle aziende pubbliche. Altro che Fiat protetta e iperfinanziata dallo Stato. Diverso è dire oggi che l’azienda non ha mai ricevuto un euro. Questo mi pare sbagliato. Gli incentivi servono pure alla Fiat...».
Cesare Romiti a Torino è stato direttore finanziario’ giugno 1974: la chiamata di Gianluigi Gabetti, l’incontro decisivo con Giovanni Agnelli ”, amministratore delegato, presidente. Anche per questo, presentare la storia della Fiat come quella di un’azienda assistita non gli garba. « vero che, dopo il lungo periodo in cui Torino è rimasta rinchiusa in se stessa, i grandi investimenti di Valletta al Sud si fecero con la Cassa del Mezzogiorno: il che significava contributi statali per il pagamento degli interessi, e anche contributi a fondo perduto. Ma la Fiat non ha mai costruito cattedrali nel deserto, come certe fabbriche chimiche. Non ha mai fatto come Rovelli in Sardegna, oggi viene indicato quasi come arrendevole se non addirittura simpatizzante verso gli avversari di una vita. Quante alle accuse ricorrenti sulla cassa integrazione, Romiti ricorda che «storicamente quelli erano soldi dei lavoratori e delle imprese, non dello Stato». C’è poi una questione che gli sta particolarmente a cuore, perché lo riguarda da vicino. «Ogni tanto affiora il mito secondo cui l’Alfa ci sarebbe stata "regalata". Non è così. L’Alfa non la voleva nessuno. Era una fabbrica di perdite. Circolava una battuta: "Per quest’Alfa le facciamo il prezzo di costo"; "no, per carità, mi faccia il prezzo di vendita!"». Dottor Romiti, la voleva la Ford. «Ma nella lettera d’offerta la Ford non arrivò alla somma che avevamo indicato noi: mille miliardi di lire in cinque anni. E parlo di cifre del novembre 1986. Cui vanno aggiunte le perdite che ci accollammo: altri mille miliardi. E migliaia di miliardi di investimenti, uniti alla garanzia che tutti i lavoratori Alfa avrebbero conservato il posto di lavoro. Ci è costato eccome imbarcarci in quell’avventura. Altro che regalo».
Sull’attualità, Romiti evita di esprimersi. C’è qualcosa però che non lo convince: «Ricorrere alla cassa integrazione senza annunciarla, dire con toni guasconi che gli incentivi non servono... Sono cose che a me non piacciono. Non è vero che la Fiat non ha avuto neppure un euro. Gli incentivi costano. Ma servono, visto che non li abbiamo certo inventati noi italiani: li fanno in tutta Europa, in Germania, in Francia, in Gran Bretagna. Sarebbe un rischio non rinnovarli, in una fase come questa». che ha creato cento piccoli società per moltiplicare i contributi. Al Sud la Fiat ha fatto Cassino, Termoli, Termini Imerese. E poi tutto il resto. Un intervento che ha creato al Sud una cultura industriale che non c’era. Conosco bene l’importanza della piccola industria in Italia. Ma ci sono cose che solo la grande impresa può dare. Ricerca, design, tecnologia. In una parola, cultura industriale. Ricordo quando vennero a Torino mille cinesi per un anno: meccanici, progettisti, contabili uomini del marketing. Hanno imparato da noi tutto, pure l’italiano, e così è nata la nostra fabbrica di Nanchino. Ancora oggi il governo cinese la considera la migliore esperienza del genere. Ricordo con emozione quando andavo in visita e dalle linee sentivo gli operai cinesi salutarmi in italiano: «Buongiorno signore...».
Ci sono molte cose, nella discussione pubblica di questi mesi, che a Romiti non sono piaciute. Innanzitutto, l’attacco postumo alla memoria dell’Avvocato, «la distorsione assoluta della sua figura». Un uomo che per tutta la vita fu l’avversario naturale della sinistra italiana, di quella rivoluzionaria che vagheggiava di eliminarlo e di quella comunista che considerava la Fiat il campo di battaglia decisivo (non a caso, ricorda Romiti, "torinesi di nascita o di formazione erano quasi tutti i dirigenti del Pci", da Togliatti, Gramsci, Terracini a Secchia, Longo, Pajetta, Pecchioli), oggi viene indicato quasi come arrendevole se non addirittura simpatizzante verso gli avversari di una vita. Quanto alle accuse ricorrenti sulla cassa integrazione, Romiti ricorda che «storicamente quelli erano soldi dei lavoratori e delle imprese, non dello Stato». C’è poi una questione che gli sta particolarmente a cuore, perché lo riguarda da vicino. «Ogni tanto affiora il mito secondo cui l’Alfa ci sarebbe stata ”regalata”. Non è così. L’Alfa non la voleva nessuno. Era una fabbrica di perdite. Circolava una battuta: ”Per quest’Alfa le facciamo il prezzo di costo”; ”no, per carità, mi faccia il prezzo di vendita!”». Dottor Romiti, la voleva la Ford. «Ma nella lettera d’offerta la Ford non arrivò alla somma che avevamo indicato noi: mille miliardi di lire in cinque anni. E parlo di cifre del novembre 1986. Cui vanno aggiunte le perdite che ci accollammo: altri mille miliardi. E migliaia di miliardi di investimenti, uniti alla garanzia che tutti i lavoratori Alfa avrebbero conservato il posto di lavoro. Ci è costato eccome imbarcarci in quell’avventura. Altro che regalo».
Sull’attualità Romiti evita di esprimersi. C’è qualcosa però che non lo convince. «Ricorrere alla cassa integrazione senza annunciarla, dire con toni guasconi che gli incentivi non servono… Sono cose che a me non piacciono. Non è vero che la Fiat non ha avuto neppure un euro. Gli incentivi costano. Ma servono, visto che non li abbiamo certo inventati noi italiani: li fanno in tutta Europa, in Germania, in Francia, in Gran Bretagna. Sarebbe un rischio non rinnovarli, in una fase come questa».
Aldo Cazzullo