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 2010  febbraio 08 Lunedì calendario

TERMINI IMERESE, DAL CAOS PUO’ RINASCERE UN DISTRETTO

Morta la Fiat, a Termini Imerese non se ne farà un’altra. Al suo posto, sul lungomare intitolato al Senatore Giovanni Agnelli, non ci sarà una grande azienda, una cattedrale industriale di quelle che hanno tanto illuso il Sud dove il mercato ha fatto soltanto capolino oppresso, nell’unanime consenso, dallo statalismo assistenziale.
Quell’epoca dovrebbe chiudersi. Si volta pagina. Per decisione di Sergio Marchionne, certo, perché è ai manager che per dirla con l’Avvocato spetta il compito di «usare la scure», ma soprattutto perché il turnaround nell’industria globale dell’auto è solo all’inizio, con leadership che declinano (Toyota), con i consumatori emergenti indocinesi da conquistare e quelli maturi euroamericani da educare alla mobilità ecocompatibile, e con, infine, una capacità produttiva globale da aggiornare. Perché di auto nel mondo se ne fanno ancora troppe. Così, solo in Europa nel 2010 se ne costruiranno quasi 2 milioni in meno rispetto allo scorso anno. Per questo Termini deve chiudere.
La Fiat se ne andrà dalla Sicilia. La decisione, questa volta, sembra irreversibile. Dice Giuseppe Berta, storico dell’industria alla Bocconi, studioso della Fiat: «Marchionne, che ha fatto del problema della sovracapacità produttiva il suo pallino, deve dimostrare agli americani che chiude uno stabilimento in Italia. Ormai guarda all’Italia dall’America e in un’ottica globale gli stabilimenti si devono chiudere. E questo è il segnale che vuole dare anche ai futuri azionisti di Chrysler». Non ci sarà una marcia indietro.
Sono destinate al fallimento le tattiche negoziali, ancorché impolverate, messe disordinatamente in campo dal ministro per lo Sviluppo economico, Claudio Scajola, per provocare, con gli stop and go sugli incentivi e le dichiarazioni altisonanti sempre a un passo dall’essere il penultimo ultimatum, il ripensamento del Lingotto. No, questa è un’altra partita che si gioca sul crinale inedito della post recessione epocale. Per questo non valgono i vecchi schemi. Nemmeno quello della Fiom, ma non solo, che stenta a vedere alternative alla grande industria dell’auto.
Di ipotesi proposte per reindustrializzare l’area di Termini Imerese ne sono arrivate già sette al ministero di Scajola. C’è Simone Cimino con il fondo Cape che punta sulla "Sunny car in a sunny region", il finanziere piemontese Domenico Reviglio con il fondo Keplero. E poi un gruppo di imprenditori cinesi che per forgiarsi del "made in Italy" sarebbe disposto ad assemblare auto in Sicilia per poi rivenderle in Cina: percorsi inversi nella globalizzazione. Ci sono gli svedesi di Ikea che puntano sull’ampio bacino di Palermo: Termini, però, dista quasi 40 chilometri. C’è chi pensa di produrre autobus elettrici o a basso impatto ambientale. Più o meno come quelli che la Fiat non riesce a vendere. C’è chi immagina a una specie di Cinecittà dopo la produzione, proprio a Termini, della fiction Rai Agrodolce. C’è anche Rossignolo, che ha rilevato la Pininfarina, tirato dentro da Scajola e non proprio convinto che si possano produrre i Suv di lusso al posto della Ypsilon. Di proposte ce ne saranno anche altre. Ma nessuno, per ora, intravede lì, in quei progetti abbozzati, più finanziari che industriali e, talvolta, stiracchiati e contraddittori, il futuro di Termini.
Ci sono oltre 500 milioni di finanziamenti (tra quelli stanziati dalla Regione Sicilia e quelli destinati dal governo all’innovazione tecnologica) che fanno gola. Che si potrebbero investire indipendentemente dalla Fiat e dai suoi capannoni, ma non dai suoi operai, al netto dei tanti che potrebbero finire in mobilità lunga. Eccola la svolta dal basso che potrebbe maturare in Sicilia per il dopoFiat. Fare di Termini una sorta di laboratorio per insediare un polo industriale di nuova generazione. Una rinascita industriale locale, un po’ come la rivolta antiracket delle imprese guidate da Ivan Lo Bello, presidente della Confindustria siciliana che, non a caso, è impegnato dietro le quinte a costruire un’alternativa industriale per Termini, seguendo le logiche e le regole del mercato e non quelle dell’antico sussidio.
«Anziché un grande impianto con mille addetti, tre, quattro medie imprese da 250 posti l’una», sostiene Alessandro Albanese, imprenditore, presidente del Consorzio per le aree di sviluppo industriale di Palermo. Si prova a ragionare a prescindere dalla Fiat perché solo per bonificare la superficie sulla quale ora sorge l’impianto ci vorranno anni e palate di euro.
Meglio andare oltre la Fiat. Sostiene Bruno Vitali, segretario nazionale della FimCisl, responsabile del settore auto: «Teoricamente ci sono tra opzioni possibili: che la Fiat rimanga e decida di rilanciarsi; che arrivi a Termini Imerese un Cavaliere Bianco e salvi tutto; che le parti in causa siano capaci di definire un progetto o più progetti per un pool di iniziative industriali. Poiché le prime due possibilità appaiono irrealistiche, non resta che provare a incamminarsi lungo la terza opzione». Ed è interessante l’analogia che fa Vitali: fino ai primi anni Ottanta a Campi l’Italsider occupava più di mille persone. Poi è stata smantellata, l’area bonificata, oggi tra centri commerciali e attività di servizio sono impiegate circa 2.500 persone. Ma poiché Termini non è Genova e non ha dunque quel serbatoio di potenziali consumatori, è la strada della produzione che si deve battere.
Negli ultimi sette otto anni racconta Albanese nell’area di Termini Imerese sono sorte una settantina di piccole aziende, da 5 a 15 dipendenti: dal legno, alla metalmeccanica, alla nautica, all’agroindustria, alla produzione di stampi per bottiglie di plastica. Non proprio un distretto, con le imprese interconnesse, perché ormai è tardi, ma un abbozzo di polo produttivo che può far leva su una cultura industriale sufficientemente diffusa e un serbatoio di manodopera "educata" alle regole della fabbrica. «Non dimentichiamo dice Giuseppe Lupo, segretario del Pd siciliano con un lungo passato di sindacalista che da Termini escono le macchine Fiat con il più basso indice di difettosità. Questa è la ricchezza di Termini».
Per attirare i capitali, locali o nazionali, si dovrebbe agire subito con l’obiettivo di accelerare le procedure burocratiche necessarie per impiantare un’impresa. «Abbiamo già presentato un disegno di legge all’Assemblea regionale dice Albanese . Lo abbiamo fatto insieme alla Confindustria e al sindaco di Termini. all’esame della commissione Attività produttive di Palazzo dei Normanni. Più che agevolazioni servono decisioni: un imprenditore deve avere una risposta dalla pubblica amministrazione in tempi certi, entro 25 giorni».
Davvero il pallino sta in mano alla politica, locale e nazionale. A Termini si punta a realizzare l’interporto con Catania, poi c’è il raddoppio della linea ferroviaria. Le nostre piccole e medie imprese innovative sono state le più brave a tenere botta alla grande recessione. Ora potrebbero salvare anche Termini Imerese e fargli sentire l’adrenalina del "quarto capitalismo" prodotto doc del Continente. Chissà.