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 2010  febbraio 08 Lunedì calendario

PERCH NON VA LA CURA OBAMA SULLE BANCHE

Un anno fa si confidava che l’amministrazione Obama avrebbe saputo elaborare rapidamente un disegno coerente di riforma delle regole e delle istituzioni della finanza, per prevenire in futuro crisi rovinose: speranza, anche questa, delusa. Una complessa proposta di riassetto delle istituzioni di regolazione del giugno del 2009, entrata nel tritacarne di un Congresso che l’amministrazione non è in grado di controllare, ha subito mutamenti radicali e sovente pericolosi ed è lontana dall’approvazione. Intanto, con rabbia dei cittadini, le grandi banche, che erano state salvate dall’aiuto pubblico, esibivano di nuovo profitti di rilievo, di cui beneficiavano azionisti e manager. Il 14 gennaio il Presidente reagiva annunciando una tassa (0,15%) per 10 anni sulle passività diverse dai depositi di quelle banche, onde recuperare i soldi spesi. Dopo appena una settimana, la pesante sconfitta dei democratici in Massachusetts ha fatto uscire un altro coniglio dal cappello presidenziale: la regola Volcker, così detta dal nome del suo primo e illustre proponente. Ne conosciamo quanto se ne dice in sei righe del comunicato stampa: 1) divieto alle banche (si suppone quelle di deposito, che godono di garanzie pubbliche) di possedere o sponsorizzare un fondo hedge o di private equity nonché di compiere operazioni su strumenti finanziari in conto proprio e non dei clienti; 2) limiti più stringenti (ma imprecisati) alle quote di mercato. Di questa proposta estemporanea il punto di rilievo è il primo.
La motivazione è semplice. Una banca, diversamente da un’impresa industriale, gode di garanzie pubbliche esplicite e se grande anche implicite: a motivo delle sue molte interconnessioni, governo e regolatori non ne possono consentire una bancarotta, che metterebbe a rischio la stabilità dell’intero sistema finanziario. Una banca ritenuta TGPF, ovvero troppo grande per poter fallire (too big to fail) può pertanto approvvigionarsi a condizioni migliori, perché i creditori si sentono più garantiti, ed è indotta ad avventurarsi in investimenti più rischiosi, perché sa di poter contare sulla rete di sicurezza di un salvataggio a spese del bilancio pubblico. Come proteggere i contribuenti dai costi che possono infliggere le banche TGPF? Le soluzioni possibili trascolorano dal dirigismo più rigido ai metodi indiretti: frammentazione dei soggetti troppo grandi, come si fece un tempo per le compagnie petrolifere; riduzione delle banche a imprese di pubblico servizio (narrow banking, modello GlassSteagall) dedicate solo all’intermediazione e alla gestione del sistema di pagamenti, con esclusione di qualsiasi altra funzione; come proposto da VolckerObama, divieto alle banche di operare in proprio con investimenti finanziari ad alto rendimento ma anche ad alto rischio, pur consentendo l’operatività di private banking per conto dei clienti; penalizzazione delle attività più rischiose – come appunto quella di negoziazione in proprio – con un inasprimento dei requisiti di capitale per ridurne la redditività; strumenti di capitalizzazione immediata in caso di bisogno e definizione di percorsi ordinati di liquidazione.
Mancando informazioni esaurienti, non è evidente che la "regola Volcker" sia facilmente attuabile: il confine fra l’operatività con i clienti e quella in conto proprio è sovente indefinito, poiché anche la prima richiede che la banca tenga un suo portafoglio di strumenti finanziari e si esponga a rischi di controparte. Ma importa di più chiedersi se quella regola sia sufficiente a evitare rischi sistemici: vi sono buone ragioni per dubitarne. In tanto parlare e scrivere della crisi mancano anzitutto (incredibilmente) dati affidabili che consentano di valutare la rilevanza dell’operatività in proprio nel bilancio delle banche maggiori (che oggi dichiarano ricavi da quella fonte fra l’1 e il 10% di quelli complessivi): il grosso dei movimenti avveniva fuori bilancio. Una banca, poi, può andare a gambe all’aria anche senza fare trading proprietario: come Northern Rock, la banca inglese di credito fondiario, che non riuscì più a rinnovare la carta commerciale a breve con cui (incautamente) finanziava il 70 per cento dei mutui. Negli Stati Uniti, d’altra parte, l’eccesso di indebitamento si accumulò nelle banche d’investimento, che, non raccogliendo depositi, non godevano di affidamenti pubblici espliciti: nel 2007 la loro leva finanziaria era di 31 dollari per 1 di capitale, contro 12 della media delle banche commerciali americane. Come dimostrano le concessioni fatte per evitare la bancarotta di Bear Stearns e Merrill Lynch, quegli istituti, presumibilmente non soggetti alla regola Volcker, divennero a tutti gli effetti TGPF, perché un loro fallimento avrebbe comunque compromesso la stabilità del sistema (come rischiò di comprometterla il fallimento di Lehman). In definitiva, potrebbe convenire agli istituti maggiori restituire la licenza di banca commerciale per continuare a operare lucrosamente e rischiosamente in proprio: perderebbero garanzie e sostegni pubblici espliciti, ma conserverebbero la garanzia implicita presunta per la razza dei TGPF. Comunque, se la regola fosse adottata solo negli Stati Uniti, l’operatività potrebbe essere trasferita sotto altri cieli. E così potrebbe avvenire.
L’estemporanea iniziativa del Presidente Obama è stata infatti assunta unilateralmente, senza consultazione con altri paesi o con gli organismi multilaterali (Financial Stability Board, comitati di Basilea) al lavoro sulle riforme del sistema finanziario: è improbabile che essa trovi consenso, soprattutto in Europa. La crisi nacque negli Stati Uniti e divenne globale, perché tale è e resterà la finanza. Gli Stati Uniti cercano ora soluzioni nazionali, condizionate dalle esigenze politiche interne dell’amministrazione. Così non si andrà molto avanti.