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 2010  febbraio 07 Domenica calendario

PAOLO VIRZ

Zaino in spalla, maglietta di ricambio e iPod nelle orecchie attraversa Roma con passo svelto. Osserva il mondo senza mai fermarsi. Quando ha del tempo libero marcia per due o tre ore, anche giornate intere. Però ultimamente ha avuto troppo da fare, Paolo Virzì. Si è innamorato, sposato, ha scoperto di aspettare un figlio e girato un film impegnativo da poco uscito nelle sale. Comunque giura che, non appena gli impegni si attenueranno, riprenderà la sua marcia.

Paolo Virzì, quarantacinquenne dall’accento toscano e la simpatia negli occhi, è considerato l’ultimo maestro della commedia all’italiana. Ma lui, golf di lana grossa e pantaloni sportivi, sminuisce: «Maestro nemmeno per sogno, già come allievo mi sento inadeguato.

Cerco di raccontare storie di un’umanità che sembra non avere nulla di speciale, di far andare a braccetto dramma e comicità e di riferire qualcosa dello spirito del tempo». E, proprio per questo suo talento funambolico, il pubblico lo ama. I suoi film, da Ferie d’agosto a Caterina va in città a Tutta la vita davanti, riescono a raccontare, come una carezza, un’Italia spietata. Delicata e amara. Sofferente e ironica. Chi entra al cinema per vedere un film di Virzì ride ma esce con lo Sturm und Drang nello stomaco. E pensare che tutto è cominciato quasi per caso. «Sono nato a Livorno da un papà maresciallo dei carabinieri palermitano e una mamma che in gioventù aveva fatto la cantante e poi si era lasciata conquistare dalla timida cocciutaggine di questo giovanotto silenzioso che la veniva ad ascoltare», racconta avvolto in una nuvola di fumo nel suo ufficio di produzione schiacciato tra il lusso dell’Aventino e l’animo popolare dell’Ostiense. Paolo bambino cresce in una gelida Torino. Primogenito, e a lungo figlio unico, ha un carattere solitario. Per farsi compagnia impara a leggere da solo sui romanzi per ragazzi. «Provai anche a copiare a modo mio Il Giornalino di Gian Burrasca ed ero arrivato alla conclusione che avrei fatto il maestro di scuola. L’idea del cinema è arrivata tardi».

Appena finisce la scuola guadagnare diventa una necessità: «I miei amici andavano in vacanza in America o in India e io facevo il mozzo sulle navio l’operaio in una fabbrica tessile livornese». Nel tempo libero si diletta come attore, aiuto regista e autore di teatro. E quando per la sua sgangherata compagnia teatrale arriva l’occasione di presentarsi a un piccolo festival lui, emozionatissimo, siede in prima fila. Lo nota il maestro Giuseppe De Santis e, da quel momento, niente sarà più come prima.

«Fui incoraggiato a iscrivermi a un corso di sceneggiatura del Centro sperimentale di cinematografia e senza troppe speranze colsi l’occasione, perché era un modo di scappare da Livorno. Pensavo vado a Roma per dare un’occhiata e torno indietro e, invece, ho rimesso piede a Livorno per girare il mio terzo film».

L’impatto con la capitale, per il provinciale Virzì, è straordinario. Ancora oggi gli si accendono gli occhi: «Mi piacque subito tantissimo, Roma era splendida, licenziosa, pericolosa, brulicante di delinquenti e di puttane, l’ideale per un ragazzetto con la testa imbottita di letteratura». Dopo un’intensa gavetta da sceneggiatore, a fianco del suo maestro Furio Scarpelli, arriva il primo ciak da regista con La bella vita, palpitante triangolo sentimentale sotto i fumi delle acciaierie piombinesi. «Avvisai i miei collaboratori che non avevo idea di come si girasse un film anche se non c’erano riprese mozzafiato ma verità, grigiore e struggimento. Il protagonista era un giovane operaio che si ammala di cuore quando scopre di non essere più desiderabile agli occhi della moglie. Mi piaceva raccontare le fabbriche con uno spirito diverso, descrivere un mondo di subalterni che mi è familiare».

Quindi è la volta di Ferie d’agosto. Un memorabile quadro dell’Italia divisa in due. Il racconto ironico di due tribù che non si capiscono: «Volevo canzonare anche quelli che ci somigliano, una sinistra che è pronta a solidarizzare coi drammi del terzo mondo ma non sopporta il vicino di casa che sbaglia i congiuntivi». Come regista Paolo Virzì è un gran faticatore, ama circondarsi di collaboratori di primo piano ma poi finisce per mettere bocca su tutto: copione, scenografie, musiche e costumi. «Sul set cerco di custodire lo spirito della sceneggiatura, che è la forma e la sostanza del film. Con gli attori sono protettivo, non credo sia utile dirigerli con la voce grossa e preferisco farli ridere di se stessi».

 un ansioso. Un fumatore che si droga di caffè. «Ma da quando Micaela è incinta, se c’è lei in giro, vado a fumare sul balcone». Micaela è l’attrice Micaela Ramazzotti. La giovane e bellissima moglie. Capelli mossi, fisico mozzafiato e bocca sensuale. Si sono sposati da poco con una cerimonia inaspettata.

«Non avrei mai pensato di sposarmi dopo i quarant’anni. Ero diventato serenamente e caparbiamente solitario e, quando mi capitava di avere una persona vicino, era inevitabilmente refrattaria ai legami e anaffettiva come me. Poi è arrivata Micaela che aveva un candore d’altri tempi, sembrava che il suo più grande desiderio fosse di mettere in ordine la mia casa e di cucinarmi il polpettone, ed ho provato ad assecondare questo suo istinto coniugale. Devo ammettere che ci stiamo divertendo, forse proprio perché siamo molto diversi».

Il bimbo che arriverà in febbraio è stato una sorpresa. Meravigliosa. «No, non lo abbiamo programmato, Micaela è rimasta incinta proprio nel bel mezzo delle riprese e ne sono stato felicemente stupito. Cercherò di essere un buon padre anche se, quando accompagnerò il bimbo a scuola, potranno scambiarmi per il nonno». Ride e poi ci ripensa: «Di questi tempi si diventa genitori sempre più tardi mentre, quando è nata la mia prima figlia Ottavia, avevo poco più di vent’anni ed ero comicamente impreparato. Povera piccina, ha vissuto un’avventurosa infanzia da zingara, ma credo si sia anche divertita dato che la portavo ovunque ed eravamo come due fratellini. Crescendo è diventata più giudiziosa di me e adesso è una splendida ventenne che studia storia dell’arte, lavora in teatro come costumista, suona il basso in un gruppo rock e divora romanzi ottocenteschi». Lo sguardo si riempie d’orgoglio: «Ottavia ha un temperamento romantico forse per via dei film sentimentali che abbiamo visto insieme».

In compagnia di sua figlia, il ragazzo padre Virzì ha scoperto il fascino del viaggio. «Ero troppo spiantato e sono uscito dall’Italia quando ho dovuto presentare il mio primo film. Tutti quei festival e quelle rassegne erano un’occasione ghiotta: Singapore, L’Avana, Shanghai. Posti dove forse non avrei mai messo piede, meravigliose vacanze a scrocco che, ancora oggi, mi rendono difficile credere che il mio sia un lavoro vero». Ancora grazie ad Ottavia ha avuto l’ispirazione per il film Caterina va in città. «Mi raccontava delle tribù della sua classe e mi sembrava un punto di vista speciale per raccontare una certa Roma, il sentimento ed il risentimento di quegli anni». E quel film, per la prima volta, lo ha girato nella capitale. « un set di eccezionale bellezza ma insidioso: ovunque metti la macchina da presa, quell’inquadratura ti sembra di averla già vista».

Un bel salto per lui abituato a immortalare la sua scrostata Livorno.

Città di pirati dove, ad ogni ripresa, i livornesi s’improvvisano registi: «Si mettono vicino a me, dietro alla macchina da presa, e fanno commenti che assecondo volentieri». Altro film metropolitano è stato Tutta la vita davanti. Uno sguardo spietato sull’ingresso nel mondo del lavoro che, per i giovani, riassume le logiche del Grande Fratello. Un universo surreale ma realistico in cui conquistare una scrivania equivale ad aver vinto i provini per il casting e, alla fine, non si è licenziati ma "eliminati".

«Dietro la buccia di una commedia divertente si è rivelato un film molto duro, su un mondo nuovo che non conosce diritti, dove il sindacalista è lo zimbello e i giovani sono spremuti con le logiche del reality applicate al lavoro. Ma non volevamo farne un pamphlet militante e manicheo, subalterni buoni e sfruttatori cattivi, e abbiamo avuto pietà per tutti, anche per la Kapò del call center, patetica e sola, che perde il senno e uccide per amore».

Nell’ultimo film, La prima cosa bella, Virzì sembra interessarsi meno alla società per dedicarsi al cuore del privato.

Il racconto, che lui definisce «da lucciconi», è quello di una famiglia livornese travolta dal malinteso scatenato dalla bellezza eccessiva di una madre che vince un concorso per miss. Una figura che in gioventù è interpretata da Micaela e più avanti da Stefania Sandrelli.

« la storia del ritorno a casa del figlio quarantenne e del suo viaggio a ritroso in brucianti memorie familiari, che si conclude con una specie di struggente riconciliazione. Avevo voglia di mettere in piedi, attraverso la storia di persone che si sono volute tanto, troppo bene, un film che facesse venire voglia di far pace con la vita. Chissà se si tratta di un bisogno di proteggersi dall’aggressività di questo periodaccio che, oltre che nella politica,è violento anche nelle riunioni di condominio e al semaforo».

Il sogno di Paolo Virzì, ammette, più che le pergamene e le statuette dei festival, è una sala traboccante di persone di tutte le età che segue il film anche un po’ rumorosamente, commentando, nel crepitare dei cartocci della roba da mangiare. «Perché le storie narrate al cinema, oltre ad essere un piacevole passatempo a buon mercato, aiutano a capire se stessi, gli altrie magaria vivere un po’ meglio». Sta succedendo, sicuramente, anche per La prima cosa bella.