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 2010  febbraio 07 Domenica calendario

DJANGO REINHARDT QUANDO IL JAZZ ERA UNO ZINGARO

-Chiedete a Paolo Conte se c’è un luogo e un’epoca in cui gli sarebbe piaciuto vivere e lui risponderà senza esitare: Parigi, tra gli anni Venti e Trenta. E allora immaginiamocela questa Parigi di inizio secolo, amabilmente confusa nella sua vertigine lussureggiante di artisti, bellezze esotiche e sale da ballo dove tanghi, javanaise e valzer musette coloravano le strade di musica. lì, in uno di quei periodi della storia in cui l’ebbrezza dell’arte si mescola ai destini umani, che nasce la leggenda del chitarrista Django Reinhardt, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita. In realtà nacque a Liberchies in Belgio, ma Parigi fu la sua città fin da quando era bambino e la sua carovana si fermò alle porte della città. Django era un manouche, uno zingaro,e suonava, come facevano più o meno tutti nella sua famiglia. Ma lui aveva qualcosa in più. Totalmente analfabeta, illetterato, sufficientemente scapestrato, aveva un dono, sublime, diciamo pure impareggiabile. Sulla musica sembrava volare, come un mago, e portava in volo chiunque lo ascoltasse, lassù in alto su un celeste "sentiero degli zingari", come i nomadi chiamano le loro errabonde strade.

Jazzisticamente parlando, questo è l’anno di Django Reinhardt. Per festeggiarne il centenario stanno uscendo libri, dischi tributo, ristampe delle sue celeberrime incisioni. Il 14 marzo, a Parigi, al Theatre des Champs Elysées, il produttore JeanMarie Salhani metterà insieme ben cento chitarristi (tra cui alcuni di cognome Reinhardt, ovviamente suoi discendenti) per rendere omaggio al più importante jazzista europeo di tutti i tempi. Cento per farne uno.

Django cominciò suonando il banjo. E a diciott’anni già era considerato un piccolo prodigio.

Era incostante e inaffidabile, spesso mandava i cugini al suo posto quando si perdeva in bistrote locali di dubbia reputazione, ma lo volevano tutti anche se il temperamento era ribelle, anche se suonava come gli pareva, trasgrediva, era irruente. Apparve già in alcune rudimentali incisioni, in gruppi di valzer musette con fisarmonica. Nelle note era indicato come Jeangot.

Suonava le musiche dei carrozzoni, le musiche zingare, tra chitarre intarsiatee fisarmoniche scintillanti, vicino a personaggi meravigliosi, bizzarri, lunatici. Ma a quei tempi a Parigi si mischiava tutto e il jazz fu un scelta naturale. Un buon terreno per improvvisare. Tanto che fu notato dal capobanda di una nota orchestra di jazz inglese che se lo voleva portare in giro per tutta Europa. Django era già sposato e aspettava un figlio. Ma il destino, romanzesco, folle, quasi incredibile, stava per segnare la sua vita in modo indelebile.

Il primo novembre del 1928 se ne stava tornando a casa, anzi nella sua roulotte, in una scarpata vicino alla Porte de Choisy, un ambiente sordido e degradato chiamato la Zone, dove si ammucchiavano i carrozzoni zingari. Ad aspettarlo c’era la moglie Bella. Appena entrato, Bella fece cadere una candela e il fuoco divampò in pochi secondi. La moglie si salvò a fatica, coi capelli in fiamme ma tutto sommato illesa. Il diciottenne Django subì gravi ustioni, danni permanentia una gambae alla mano sinistra.

Due dita, l’anulare e il mignolo furono compromessi, malamente saldati alla mano dalla cicatrizzazione, ma inservibili, e fu lui stesso a rifiutare l’amputazione, sia della gamba che della mano. Per i medici stava rischiando la vita, ma lui tenne duro, e se la cavò, rimanendo però menomato. Per il banjo non c’era più storia. Ma nei lunghi mesi di degenza cominciò a giocare con la chitarra, più flessibile, meno dura del banjo, e sullo strumento inventò letteralmente una tecnica che gli permetteva di suonare con sole tre dita, l’indice e il medio che scorrevano sulle corde, il pollice che interveniva sui bassi, e le due dita menomate usate come barrè.

Quando uscì dall’ospedale la chitarra stava facendo capolino nel jazz sostituendo i banjo. La musica manouche ancora andava ma nei locali dei viveur p a rigini si affermava sempre di più il jazz più morbido e fluttuante che cominciavaa prendere il nome di swing.

Il suo prodigioso stile, seppur dovuto a un handicap, è stato poi studiato e imitato da molti. Anche perché Django non solo riuscì a diventare un bravo chitarrista, il che era già qualcosa di miracoloso, ma un vero proprio genio, un innovatore capace di inventare uno stile inimitabile, originale al punto da diventare il primo jazzista europeo all’altezza dei grandi americani. La Parigi degli anni Trenta non era proprio New Orleans ma per l’Europa era il luogo più vivo e creativo che si potesse immaginare. E così quando formò col violinista Stephane Grappelli il leggendario Quintette du Hot Club de France, era pronto a entrare nella Storia.

Il gruppo era già in sé un’anomalia, solo strumentia corda in una musica dominata da fiatie percussioni. Ma proprio con la sua originalità Django fu il primo a staccarsi dalla dipendenza del dominante modello americano. Sulla chitarra scivolava con languore ammaliante, inventava melodie che attingevano liberamente al lessico del jazz ma anche alla sua memoria manouche, con un senso ritmico inarrivabile. E rimaneva a suo modo un personaggio da romanzo. Incostante, ritardatario, giocatore d’azzardoe di biliardo, alimentava la sua leggenda rifiutando tutto ciò che era ovvio, prevedibile. In America lo chiamò Duke Ellington, ma quando fu invitato ad esibirsi con lui alla Carnegie Hall per quella che doveva essere la sua consacrazione nella patria del jazz, arrivò in ritardo, perso in chissà quale scommessa,o quale gonnella da corteggiare. Per lui contava solo la musica, ma rimaneva nell’animo uno zingaro, uno che, come dicevano quelli della sua genìa, suonava per i "contadini" o gadjè, come gli zingari chiamavano quelli stanziali,i non zingari. E per la stessa strafottenza se ne tornò in Francia dall’Inghilterra, in tempo per passare guai con l’occupazione nazista. Continuava a non saper leggere e scrivere, cosa che non gli impedì di dimostrarsi anche un raffinato compositore (vedi pezzi come Nuages o Belleville) ma essendo vanitoso chiese una volta a Stephane Grappelli di insegnargli almeno la firma, così da poter siglare gli autografi. Lo hanno studiato in tanti, sperando di comprendere il mistero della sua magia, della naturalezza con cui swingavae improvvisava sulla sua chitarra creando sempre scintille di estatica malinconia. E uno degli omaggi più singolari che gli siano stati tributati viene da un film. In Accordi e disaccordi di Woody Allen, Sean Penn interpreta la parte di un geniale e scombinato chitarrista jazz. Bravo, gli dicono tutti,e lui ogni volta risponde sì, ma sono solo il secondo. C’è uno più bravo di me. Allude ovviamente a Django Reinhardt, una delle più romantiche leggende del jazz, il genio manouche completamente analfabeta ma capace di scrivere le più belle pagine del jazz europeo.

Morì il 16 maggio del 1953, precocemente, a causa di una sua idiosincrasia. Aveva il terrore delle iniezioni e per questo evitava i medici, una disattenzione che gli costò la vita. Ha lasciato tanti eredi spirituali che ancora oggi perpetuano il suo stile, come Bireli Lagrene e Stochelo Rosenberg, ma soprattutto ha lasciato una sensazione insopprimibile e ancora oggi più che mai avvolta di fascino: che il jazz possa essere un romanzo della vita, da scrivere a colpi di note.