PIETRO VERONESE, la Repubblica 7/2/2010; ANAIS GINORI, la Repubblica 7/2/2010, 7 febbraio 2010
2 articoli - IL GIORNO CHE LIBERAI MANDELA/1 - La mattina di domenica 11 febbraio 1990 annunciava una giornata calda, radiosa, bellissima
2 articoli - IL GIORNO CHE LIBERAI MANDELA/1 - La mattina di domenica 11 febbraio 1990 annunciava una giornata calda, radiosa, bellissima. In quel periodo dell’anno, alle latitudini australi, la buona stagione volge alla fine e il tempo variabile della regione del Capo di Buona Speranza, esposto ai calori del deserto a nord e ai venti polari a sud, riserva sempre sorprese. Non così quel giorno, in cui anche la storia aveva in serbo uno spettacolo di luce e di gloria. Nelson Mandela, «il prigioniero politico più famoso del mondo», avrebbe riconquistato la libertà. Era stato arrestato nell’agosto del 1962, processato e condannato all’ergastolo. Erano passati quasi tre decenni, il tempo di una generazione, e per almeno la metà di quegli anni la fama non si era affatto interessata al detenuto di Robben Island. Poi le formidabili lotte della nuova leva di neri sudafricani, iniziate con la rivolta di Soweto nel 1976 e riprese e proseguite senza posa nella seconda metà degli anni Ottanta, avevano attirato l’attenzione del mondo su quel recluso. E sul suo mistero. Il mondo intero conosceva Nelson Mandela, ma nessuno lo aveva mai visto. Certo, il suo volto era noto ai suoi carcerieri; ai vecchi compagni di lotta imprigionati con lui; alla moglie, ai suoi avvocati; ai leader politici bianchi che negli ultimissimi anni, in gran segreto, avevano avviato con lui colloqui sull’avvenire politico del Sudafrica. Ma il resto del mondo lo ignorava. L’ultima fotografia conosciuta ritraeva un giovane avvocato nel fiore della maturità che - già latitante - improvvisava un comizio prima di tornare a nascondersi nella clandestinità. Mandela doveva avere all’epoca una quarantina d’anni: un uomo carico d’energia virile, elegante, dal volto pieno e dall’espressione determinata. Colui che i giornali sudafricani avevano soprannominato «la primula nera», parafrasando il nome dell’eroe romanzesco della baronessa Orczy («La cercan qui, la cercan là/ dove si trovi nessun lo sa/ Che impadronirsi mai non si possa/ della dannata Primula Rossa?»). Poco tempo dopo la black pimpernel era stata invece catturata, e da allora più niente. Era passato un trentennio. L’uomo che stava per tornare libero aveva settantuno anni e mezzo. Oggi il volto di Nelson Mandela è noto all’intero pianeta. probabilmente quello del leader politico più popolare, più stimato, più amato del mondo. un’icona. L’11 febbraio 1990 era un’incognita. Pochi giorni prima un settimanale americano aveva addirittura pubblicato in copertina un’elaborazione al computer di quella sbiadita istantanea, invecchiando i lineamenti, aggiungendo rughe alla fronte e pieghe alle guance, per dare un’idea di come «il prigioniero politico più famoso del mondo» poteva apparire. Ma era solo una supposizione. « Mandela speaks», c’era scritto sui volantini distribuiti a tappeto nelle periferie di Città del Capo per annunciare il comizio organizzato in serata: Mandela era una voce, ma non un volto. Quella domenica mattina c’era dunque, prima ancora che una grande emozione, un’enorme curiosità. I giornalisti si erano mossi di buon’ora perché la prigione Victor Verster, ultima dimora del detenuto Mandela prima della liberazione - più una colonia penale agricola che un vero e proprio penitenziario, una prison farm secondo la definizione ufficiale, dove lui alloggiava nella villetta del capo guardiano - era un bel po’ fuori città, seminascosta negli avvallamenti di quel paesaggio di colline e vigneti che ha giustamente fama di essere tra i più belli del mondo. La strada provinciale sulla quale si apriva a un certo punto la cancellata della colonia penale era stata già da un pezzo chiusa al traffico, diversi chilometri prima. Così, lasciate le macchine sul ciglio della carreggiata, migliaia di curiosi e di militanti, gli inviati di giornali, radio e tv si erano incamminati sotto il sole e l’evento aveva preso l’andamento di una gita fuori porta, accaldata e allegra, taccuini in una mano e bottiglie d’acqua nell’altra, fino alla tribuna di ponteggi e tavole di legno improvvisata davanti all’ingresso del Victor Verster. Gli ultimi avvenimenti si erano succeduti molto in fretta. Il discorso della svolta, con il quale il presidente sudafricano de Klerk aveva proclamato la fine del regime dell’apartheid, la legalizzazione delle organizzazioni politiche bandite da decenni (a cominciare dall’African National Congress di Mandela), la sospensione delle condanne a morte, la liberazione della maggior parte dei prigionieri politici, era di dieci giorni prima, il 2 febbraio. La scarcerazione di Mandela ne era la conseguenza prevedibile; ma si pensava che la si sarebbe dovuta aspettare ancora settimane, forse mesi. Sabato 10, invece, l’annuncio a sorpresa, per l’indomani. Con il senno di poi e la prospettiva del tempo, tutto appare logico e chiaro. Il Muro di Berlino era caduto il 9 novembre, tre mesi prima; oggi sappiamo che esso era come un grande chiavistello, che teneva sprangata la porta della storia e l’umanità prigioniera. Spezzato quel catenaccio imposto alla libertà degli uomini, dalle repubbliche baltiche all’estremo nord dell’Europa all’ultima punta dell’Africa protesa verso l’Antartico, le vicende umane si erano improvvisamente rimesse in cammino. Ma in quelle ore, il susseguirsi delle notizie mandava il cuore in gola dalla meraviglia e dall’eccitazione. Nelson Mandela apparve al cancello della sua ultima prigione intorno alle quattro del pomeriggio, con circa un’ora di ritardo sul programma. Veniva tenendo per mano la moglie Winnie, era alto, sorridente e visibilmente emozionato. Aveva l’andatura un po’ dinoccolata, levava l’altra mano in segno di saluto. Fu questione di attimi e la confusione divenne parossistica. Mandela salì in macchina e il convoglio di auto si avviò verso la Storia, lasciando indietro noi, che finalmente lo avevamo visto, felici e appiedati. PIETRO VERONESE, la Repubblica 7/2/2010 IL GIORNO CHE LIBERAI MANDELA/2 - «Quando ho incontrato Nelson Mandela per la prima volta sono rimasto colpito dal suo portamento altero, quasi superbo. Avevo davanti a me un signore già anziano, forse fisicamente più alto di quanto immaginassi, che emanava una straordinaria forza e convinzione morale. Ecco, non sembrava proprio un prigioniero in carcere da ventisette anni». Il bianco e il nero. L’afrikaner colonialista e il sudafricano oppresso. Frederik Willem de Klerk è stato l’ultimo presidente dell’Apartheid, l’uomo che l’11 febbraio 1990 ha firmato il decreto per liberare Mandela, mettendo fine al regime segregazionista durato mezzo secolo. Nel 1993 sono andati insieme a Oslo per ricevere il premio Nobel per la Pace. L’anno dopo, con le prime elezioni libere, de Klerk ha lasciato il potere in mano al leader dell’African National Congress.«Siamo diventati amici anche se i nostri rapporti sono stati a volte burrascosi». Nella sua casa di Città del Capo, dove vive con la sua seconda moglie Elita, de Klerk si prepara a festeggiare il ventennale di quella storica liberazione. «Tre anni fa - racconta - Desmond Tutu e Mandela sono venuti alla festa per i miei settant’anni. Con una delle sue tipiche battute, ha scherzato sulla nostra differenza d’età. Sosteneva di essere più giovane di me perché ha passato un lungo periodo della vita in contemplazione». Il giorno che ha deciso di liberare Nelson Mandela, il prigioniero politico più famoso del mondo. Ci racconti quel momento. «Non fu una decisione improvvisa. Per me era il punto d’arrivo di un lungo processo avviato all’interno del National Party. Già il 6 febbraio 1989, appena eletto leader del partito, avevo messo in chiaro che il nostro obiettivo doveva essere costruire un "nuovo Sudafrica". Alle elezioni del settembre 1989, con le quali diventai presidente, le riforme erano nel programma. Insomma, pensavo di aver largamente preparato il terreno per una svolta. Eppure il mio annuncio suscitò enorme sorpresa. I militanti dell’estrema destra erano inorriditi». Quale ricordo conserva del suo primo incontro con Mandela? «Era il 13 dicembre 1989. Mandela stava a Victor Verster Prison. Chiesi di farlo portare in gran segreto nel palazzo presidenziale di Città del Capo. Di lui conoscevo solo vecchie foto da giovane. Era molto cambiato ma non era assolutamente afflitto dalla lunga prigionia. Non discutemmo di politica, né di decisioni sostanziali. La cosa fondamentale è stato guardarci negli occhi e stringerci la mano. Abbiamo capito subito che potevamo fare un pezzo di strada insieme». Prima di liberare Mandela, lei fece un discorso per dichiarare la fine dell’Apartheid. Era il 2 febbraio 1990. «Quella mattina ho provato una sensazione che capita raramente nella vita. come se avessi incontrato il mio destino. Non ho avuto dubbi, né tentennamenti. Sapevo di fare la cosa giusta al momento giusto». Suo padre è stato ministro in tre governi dell’Apartheid. Cosa avrebbe pensato della sua decisione? «Ognuno di noi è il prodotto della propria epoca. Quando ho messo fine all’Apartheid, il Sudafrica era cambiato drammaticamente. Sono sicuro che se mio padre fosse stato ancora vivo avrebbe approvato l’idea di una transizione democratica». Il 10 febbraio, Mandela fu portato di nuovo nel suo ufficio per discutere i dettagli del suo rilascio. vero che le chiese di ritardare l’annuncio? «Mandela voleva rimandare la liberazione di qualche giorno, per permettere all’Anc di negoziare alcuni aspetti della transizione politica. Gli dissi che non era più possibile, ma che avrebbe potuto scegliere dove essere liberato, se a Città del Capo o a Johannesburg. Scelse Città del Capo». Quanto hanno pesato le sanzioni internazionali nel fallimento dell’Apartheid? «L’Apartheid è fallito per tanti motivi. La ragione essenziale è che si trattava di un sistema moralmente ingiusto. Nessuna forza militare può andare contro la maggioranza della popolazione. Da un punto di vista economico, la divisione per gruppi etnici era superata, insostenibile. Le sanzioni hanno giocato un ruolo dopo, quando sono state tolte, accelerando lo sviluppo del paese». Poco dopo la sua elezione, cadde il Muro di Berlino. Altro fattore decisivo? «Il collasso del comunismo mi convinse che era diventato possibile andare verso una democrazia. Durante gli anni Ottanta la maggioranza dei membri del direttivo dell’Anc aveva contatti con l’Unione Sovietica e professava una rivoluzione in due fasi: la liberazione nazionale seguita dall’instaurazione di una società comunista. Dopo Berlino 1989 rimaneva solo la prima, per fortuna». Torniamo a quell’11 febbraio 1990. Mandela fece il famoso discorso da uomo libero, annunciando che la lotta armata sarebbe continuata. Ne fu sorpreso? «Era sconcertante, ero sconcertato. Andava contro tutti i progetti di pacificazione che insieme dovevamo garantire. Mandela mi disse poi che il discorso non è stato scritto da lui. Non so se fosse vero. Il dubbio rimane». Il suo governo fu accusato di chiudere un occhio sulle violenze che continuavano a compiere le autorità. «Dopo la liberazione di Mandela, abbiamo attraversato un periodo difficile. Chiesi di istituire una commissione, la Goldstone Commission, per indagare sulle accuse. Le conclusioni furono che sia l’Anc sia membri della polizia e dell’esercito avevano partecipato alle rappresaglie di quel periodo. Credo di aver fatto il mio dovere per accertare la verità». Durante la transizione, lei e Mandela avevate anche smesso di parlarvi. Comunicavate solo attraverso collaboratori. Perché? «L’ala radicale dell’Anc cercò di sabotare i negoziati. Durante il corteo del 7 settembre 1992 a Bisho, con decine di morti e feriti, ci siamo trovati a un passo dal baratro. Per fortuna, i moderati come Mandela hanno ripreso il controllo del partito, tornando a negoziare il 26 settembre di quell’anno». Quando Mandela divenne presidente del Sudafrica, lei rimase al governo. Come fu la coabitazione? «Mandela non è mai stato un presidente interessato all’ordinaria amministrazione. Delegava quasi tutto al suo vice, Thabo Mbeki e, in misura minore, a me. La forza di Mandela è stata sempre il suo carisma e la sua tenacia nel promuovere una riconciliazione nazionale». Anche su questo ci fu disaccordo tra voi. Lei non approvò la creazione della commissione per la Verità e la riconciliazione. «Era un organo di parte. Al suo interno, non c’era un solo membro che rifletteva le posizione del precedente governo o del Inkatha Freedom Party (il partito indipendentista zulu, ndr ), l’altro attore principale del conflitto. Riconosco che la Commissione possa aver avuto una funzione catartica e abbia investigato pezzi importanti della nostra storia. Ma certamente non è servita alla riconciliazione nazionale». Il Sudafrica è diventato il «paese nuovo» che aveva immaginato vent’anni fa? «Nel mio discorso del 2 febbraio 1990 avevo auspicato una "nuova Costituzione, il diritto di voto universale, la fine della dominazione razziale, un sistema giudiziario indipendente, la protezione delle minoranze e della libertà religiose ". Penso che tutti questi principi oggi siano validi, anche se purtroppo rimangono ancora da fare molti progressi nella loro applicazione». "Chi avvia grandi svolte all’interno delle dittature spesso viene poi messo da parte". La pensa anche lei come Gorbaciov? «Non cambierei nulla di ciò che ho fatto. Come ho detto quando mi sono congedato dal parlamento nel ’97, è stato un privilegio servire il mio Paese. Dio mi ha aperto delle straordinarie opportunità, dandomi la forza e il coraggio di coglierle. Vorrei che la Storia mi giudicasse per questo». ANAIS GINORI, la Repubblica 7/2/2010