Danilo Maestosi, Il Messaggero 7/2/2010 Lucia Pozzi, Il Messaggero 7/2/2010, 7 febbraio 2010
2 articoli. MATTEO RICCI- Anche la Cina si unisce alle celebrazioni per il quadricentenario della nascita e rende omaggio a Matteo Ricci (1552-1610), missionario gesuita, messaggero di cultura e di fede nelle corti del Celeste Impero, pioniere del dialogo fra Oriente e Occidente
2 articoli. MATTEO RICCI- Anche la Cina si unisce alle celebrazioni per il quadricentenario della nascita e rende omaggio a Matteo Ricci (1552-1610), missionario gesuita, messaggero di cultura e di fede nelle corti del Celeste Impero, pioniere del dialogo fra Oriente e Occidente. Lo fa con una grande mostra itinerante in tre diverse città, ”Padre Matteo Ricci - Incontro di civiltà nella Cina dei Ming”, promossa e realizzata dalla Regione Marche (terra natale di Ricci) e sponsorizzata dalla Banca Popolare di Ancona, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica e con il patrocinio del ministero per gli Affari Esteri e del ministero per i Beni e le Attività culturali. Ieri l’inaugurazione della mostra a Pechino (fino al 20 marzo), dove Matteo Ricci, privilegio rarissimo, fu sepolto e si può ancora visitare la sua tomba. E dove in un fregio che decora la gigantesca sala del Millennium Museum, gli unici stranieri rappresentati in questo Pantheon della Storia cinese sono due italiani: lui e Marco Polo. Seconda tappa a Shanghai, dal 2 aprile al 23 maggio. Terza, dal 4 giugno al 23 luglio, a Nanchino. In esposizione un nucleo fisso di oltre 200 opere integrato in ogni trasferta da nuovi innesti. Capolavori d’arte di maestri eccelsi come Raffaello, Tiziano, Lorenzo Lotto. Carte geografiche. Abiti. Orologi, astrolabi, e altri strumenti scientifici d’epoca. Copie rarissime dei tanti libri e trattati che padre Ricci pubblicò in Italia e in Cina. Una raccolta di cimeli che il missionario gesuita utilizzò come grimaldelli per aprirsi una breccia nella spessa cortina di diffidenza e rigetto che isolava dal resto del mondo la cultura cinese. Si servì dei quadri per far circolare le sacre icone e le parabole del Vangelo, ma anche per far penetrare le esperienze della prospettiva e le nuove conquiste rinascimentali dell’arte del ritratto sconosciute ai pittori locali. Distribuì e fabbricò orologi per ingraziarsi il favore dei potenti che incontrò nella sua lenta marcia di avvicinamento verso Pechino durata 18 anni. Raccolse e pubblicò in latino le massime di Confucio, di cui praticò e lodò pubblicamente i precetti morali rilevandone le analogie con molti comandamenti delle Sacre Scritture. E tradusse in cinese i teoremi della geometria euclidea e persino le riflessioni filosofiche sull’amicizia di Cicerone. Disegnò con le sue mani una serie di mappamondi aggiornati alla luce delle nuove scoperte dei conquistadores portoghesi e spagnoli rivoluzionando la cartografia locale, che ancora ignorava le teorie di Copernico e trascurava le terre oltre i confini del proprio immenso Impero. Ma con molta diplomazia ne fabbricò uno, poi donato all’imperatore, che riportava al centro di tutte le rotte di terra e di mare proprio la Cina. Anche il mutar delle abitudini e delle vesti divennero tasselli della sua strategia di adattamento e camuffamento: quando scoprì che in una società così rigidamente stratificata come quella cinese ostentare modestia e povertà lo avrebbe condannato all’anonimato e al disprezzo riservato ai bonzi buddisti non esitò ad indossare la tenuta e i modi dei mandarini che frequentava, spostandosi in palanchino, circondandosi di servi e lacchè e facendo proprio il costume degli scrittori di corte: il buffo cappello così simile - è lui stesso a notarlo in una lettera - alla tiara di un vescovo, l’ampia palandrana svasata di seta ricamata, le babbucce. E la barba lunga e incanutita da vecchio saggio. Che aumentava la sua autorevolezza, ma anche il fardello degli anni. Agli amici della corte pechinese che glielo facevano notare, stupiti della sua apparenza da vegliardo a soli 50 anni d’età, Matteo Ricci spiegò in modo ironico e bonario in una lettera che era tutta colpa loro e del loro paese: troppe fatiche, troppe tribolazioni, troppe attese per farsi largo. Una vocazione al sacrificio e all’impegno che connota del resto tutta la sua biografia. Nato nel 1552 a Macerata da nobile famiglia, viene avviato dal padre agli studi di giurisprudenza e inviato a Roma presso il Collegio romano. Ma affascinato dagli ideali e dalle attività dei Gesuiti scopre la sua vocazione religiosa, volta le spalle a una sicura carriera di avvocato, entra nella Compagnia e si concentra sugli studi scientifici: astronomia, matematica, geografia, cosmologia. Un bagaglio di conoscenze che diventa davvero l’arma in più della sua carriera di missionario. Nel 1578, dopo un anno di soggiorno in Portogallo, viene spedito a farsi le ossa a Goa, nell’India del Sud. Quattro anni dopo è pronto per la Cina, governata con pugno di ferro e raffinata filosofia dalla dinastia Ming, succeduta all’impero dei Mongoli con cui 3 secoli prima Marco Polo era entrato in contatto. Il primo approdo è Macao, un porto franco di confine dove comincia a studiare la lingua e a perfezionare il suo approccio con l’Oriente, i suoi costumi, la sua cultura. Fonda due diverse missioni, prima a Zhaoqing, la seconda a Nanchino. Un cammino costellato da peripezie, malattie, persino il sequestro da parte di un notabile eunuco, ma anche dai primi notevoli successi. A far colpo nella cerchia di potenti ed eruditi in cui comincia a farsi largo è la sua conoscenza della lingua, il suo rigore morale, ma soprattutto la sua cultura enciclopedica di intellettuale e scienziato. E poi la sua straordinaria memoria: Ricci ha messo a punto un metodo per abbinare il ricordo di ciò che legge ed impara a segni e simboli, stanze e caselle di un gigantesco palazzo in cui ha iscritto tutto il sapere dei libri che non può portare con sé. E a cui dedica un trattatello in cinese, decisivo per la sua incoronazione di intellettuale di rango. Leggendaria una sua dimostrazione in un salotto di nobili e alti funzionari: ai presenti chiede di compilare una lista a piacimento di 400 parole, Ricci le legge per qualche minuto, poi distogliendo lo sguardo dal foglio le ripete una dopo l’altra senza errori, ripercorrendo infine la catena di lemmi anche all’inverso. Ormai anche i mandarini più sospettosi lo considerano uno di loro: Li Madou, il nome con cui lo ribattezzano. Non un prete ma uno scienziato. E’ il passaporto con cui nel 1601 riesce ad entrare a Pechino, ammesso e stipendiato come consulente dall’imperatore Wanli, che non riuscirà però mai a incontrare di persona. Pubblica volumi, partecipa a vari progetti scientifici, collabora alla riforma del calendario. E si conquista la libertà di apostolato. Quando muore nel 1610, è il primo straniero che in Cina si vede assegnare l’onore di una tomba. Al suo attivo dopo tanti anni e tanti sforzi solo cinquecento conversioni. Ma è una testa di ponte importante. La predicazione cattolica ha finalmente via libera. Un patrimonio che mezzo secolo dopo si è già dissolto. Accuse e invidie del clero più conformista contestano il sincretismo di Ricci e riescono a far mettere al bando i suoi principi. Il nome e l’opera del missionario gesuita precipitano nell’oblio, dal quale solo l’ultimo ventennio l’ha riscattato fino a proporne la beatificazione. E la Cina, incalzata senza più prudenza e rispetto, torna ad arroccarsi contro l’Occidente. Danilo Maestosi, Il Messaggero 7/2/2010 QUEL MAESTRO D’OCCIDENTE COSI AMATO IN CINA E’ una figura popolare, in Cina, quella di Padre Matteo Ricci. Non quanto Marco Polo, che anche l’uomo della strada associa subito all’Italia e alle sue bellezze. Ma il gesuita maceratese è tutt’ora citato nei manuali cinesi di storia, è immancabilmente ricordato negli incontri ufficiali (e non solo) come il vero pioniere del dialogo tra Oriente e Occidente, incuriosisce e cattura ben oltre l’intellighenzia cinese per la sua raffinata cultura, attraendo anche le classi medio-basse sempre più sensibili al messaggio di fede del quale era portatore. «La lingua e i costumi e creanze loro (...) sono moltissime, e chi non l’usa è tenuto per barbaro e non può dar frutto». Così scriveva Padre Matteo Ricci al fratello canonico Antonio Maria, nella sua straordinaria tensione verso quello che, in una lettera al confratello Girolamo Costa, dipingeva come un «regno differentissimo di tutti gli altri del mondo». Era la Cina della dinastia Ming, una Cina chiusa, chiusissima verso l’esterno, nella quale lui, Li Madou (è la traslitterazione del suo nome), s’immerse in uno sforzo di immedesimazione totale che fu riconosciuto e apprezzato, tanto da essere comunemente indicato dai cinesi come Xitai, Maestro del Grande Occidente, già dal 1595, quando scrisse il suo Trattato sull’amicizia. Un insigne mandarino presentò questa sua opera come quella di un uomo «venuto in Cina per farsi degli amici...Eh, quanto importante è l’amicizia!». Perché aveva inteso bene, Padre Matteo, che «il popolo cinese deve essere capito a partire da se stesso, nella sua identità riconosciuta e rispettata»: questo dice di lui un profondo conoscitore della Terra di Mezzo come il Cardinale Roger Etchegaray, nel suo Verso i cristiani in Cina, dopo che Papa Giovanni Paolo II aveva ufficialmente riscattato il gesuita maceratese dall’oblio nell’82, esaltandone, alla Gregoriana, «la grande attualità». Sun Yuxi, attuale ambasciatore della Repubblica Popolare in Italia, lo definisce «un importante personaggio nella storia dei rapporti tra i nostri due Paesi, una personalità nota in tutta la Cina». Ed è la voce ufficiale del governo di Pechino che parla, nell’anno del quarantesimo delle relazioni diplomatiche tra Cina e Italia. «E’ una buona occasione per fare un salto di qualità negli scambi culturali tra i due Paesi», aggiunge Sun Yuxi pensando, da un lato, alla mostra itinerante dedicata a Padre Matteo in Cina e inaugurata ieri a Pechino, dall’altro, all’apertura a settembre dell’Anno culturale cinese in Italia. «Approfondire la conoscenza, consolidare l’amicizia», è la parola d’ordine per il futuro. Proprio sulle orme dell’insegnamento di Padre Matteo. Era tanto vero questo, per lui, che la grande sintonia spirituale che lo legò a Li Zhizao e Xu Guangqi fu il tramite necessario a creare un dialogo fecondo tra Oriente e Occidente, «al più alto livello fra due culture prima separate», sottolinea Joseph Needham. Il suo amore per il popolo e la cultura della Terra di Mezzo è forte nei diari di viaggio e nei numerosi scritti in cinese, con tutta l’ammirazione per gli alti valori morali del confucianesimo, che a parere di Matteo Ricci conteneva in sé l’idea di Dio, per quanto si riferisse a Confucio come a «un altro Seneca». Esportava dalla Cina sapere, esperienza, sensazioni. Importava conoscenze scientifiche, tecniche, astrologiche, creava curiosità e stimoli intellettuali anche negli strati più alti e colti della società cinese con le sue carte geografiche che illustravano un mondo fatto di cinque continenti (cosa che nemmeno le più sofisticate elaborazioni dell’eunuco Zheng He rappresentavano), gli orologi meccanici (a fronte delle clessidre ad acqua e degli orologi solari in uso allora nella Terra di Mezzo) le previsioni delle eclissi più precise di quelle ufficiali (la convinzione generale era che il sole venisse mangiato da un drago, e per questo scomparisse, immaginando che la terra fosse piatta e il sole «poco più grande del fondo di una botte»). Nella speranza sempre accesa, confessava nel 1608 Matteo Ricci in una lettera al Preposito Generale della Compagnia di Gesù, Padre Claudio Acquaviva, che anche ai cinesi, «leggendo tante cose...della nostra santa legge e costumi di nostra terra, gli venga un giorno voglia di...domandare delle cose nostre». Così è stato. A singhiozzo nel tempo, però. Passò presto il ricordo dell’Editto di tolleranza del 1692 e si impose la proscrizione del cristianesimo, nel 1724, con l’imperatore Yung Cheng. Ma l’alto sapere portato dai gesuiti, quella Conoscenza che aveva dato accesso a Padre Matteo fino al cuore della Città Proibita, è stata assorbita. E trasmessa. «Ci aspettiamo molto da questa mostra», dice l’ambasciatore italiano a Pechino, Riccardo Sessa. «Matteo Ricci fa parte integrante del patrimonio culturale tanto dell’Italia quanto della Cina. Ed è un simbolo forte dell’amicizia che ci lega». Gli fa eco Barbara Alighiero, che dirige l’Istituto italiano di cultura a Pechino: «Oggi le famiglie amano visitare mostre e musei, e qui è maturato un grande interesse verso questo illustre personaggio». E’ servita l’esposizione permanente degli strumenti astronomici usati dai gesuiti presso il vecchio Osservatorio di Pechino; è servita la sua immagine nella sala d’onore del Millenium Museum, in veste di mandarino confuciano, mentre scruta i cieli dall’Osservatorio astronomico della città Proibita, unico straniero ammesso insieme a un altro italiano, Marco Polo appunto, tra le tante figure che segnano le tappe salienti della storia cinese; è servito il suo essere l’unico occidentale ad avere avuto sepoltura all’interno di un monumento celebrativo di uno Stato socialista e ateo, nel cuore della città imperiale. E se, nonostante tutto, questo quarto centenario dalla morte di Padre Matteo passerà più in sordina rispetto ai 750 anni dalla nascita di Marco Polo, celebrati in pompa magna nel 2004, è evidente che la Cina gli riconosce oggi, e non solo oggi, uno straordinario tributo. Lucia Pozzi, Il Messaggero 7/2/2010