Gianni Barbacetto, il Fatto Quotidiano 6/2/2010;, 6 febbraio 2010
QUEL TRAPPOLONE DEL ”92
Mani pulite è, come qualcuno adombra in questi giorni, un complotto ordito dalla Cia? A restare ancorati ai fatti, nella storia dell’inchiesta anticorruzione si trova qualche segnale della presenza dell’agenzia americana. Ma in azione c o n t ro l’inchiesta e c o n t ro Antonio Di Pietro. L’om - bra della Cia si materializza al Palazzo di Giustizia di Milano fra la primavera e l’estate del 1992. Un avvocato si presenta nell’ufficio del pm Piercamillo D av i go . Franco Sotgiu, difensore dell’architetto Bruno De Mico, già protagonista dello scandalo delle ”Carceri d’o ro ”. De Mico, annuncia Sotgiu, ha importanti comunicazioni da fare, ma non vuole essere visto dai giornalisti. Si avvia una lunga trattativa sul luogo dell’incontro. Il legale propone un appartamento. Davigo comincia a insospettirsi: abituato alla prudenza, il pm esclude incontri sull’i n ch i e s t a fuori dai luoghi deputati, il Palazzo di Giustizia, le caserme... Impone un appuntamento nella caserma dei carabinieri di via Moscova. De Mico accetta e dopo molte esitazioni racconta che ci sono ”ambienti americani” disponibili a dare una mano al Pool, per garantire la sicurezza dei magistrati e aiutarli a riportare in Italia i latitanti. Questi ”ambienti americani” – con - tinua De Mico – per entrare in azione attendono un segnale: la partecipazione di un magistrato del Pool, preferibilmente Di Pietro, a ”60 Minutes”, programma tv della Cbs. Davigo esce dall’incontro perplesso: in questa storia in cui si evoca la Cia sente odore di bruciato. Sa che la magistratura italiana non può avere rapporti con i servizi segreti. Pensa: ”Questo è un trappolone”. Che cosa succederebbe se qualcuno riuscisse a dimostrare che Mani Pulite ha accettato collaborazioni illegittime? Così stende un rapporto al procuratore Francesco Saverio Borrelli e, per non sbagliare, apre un procedimento penale a carico di De Mico e di ignoti per il reato previsto dall’articolo 246 del Codice penale: spionaggio per conto di Stati stranieri. Le perplessità aumentano quando l’avvocato Sotgiu telefona al numero riservato di casa di Davigo chiedendo un nuovo incontro in tempi brevissimi, a quattr’occhi: ”Le devo parlare, vengo a casa sua”. Il magistrato rifiuta: ”A casa mia non se ne parla. Se vuole, ci vediamo nel suo studio”. Ci va con due ufficiali dei carabinieri: uno lo accompagna all’incontro; l’a l t ro , a capo di una piccola squadra, controlla l’esterno per verificare eventuali presenze. Sotgiu, come già De Mico, si rifiuta di verbalizzare. Davigo allora se ne va, lasciando sul posto il carabiniere, che come ufficiale di polizia giudiziaria può avvalersi di ”fonti confidenziali”. In questo e poi in un secondo incontro con l’ufficiale, Sotgiu ribadisce la disponibilità di non meglio specificati ”ambienti amer icani” a consegnare alla giustizia alcuni latitanti: sostanzialmente Silvano Larini, amico di Bettino Craxi e postino delle sue tangenti. Purché nessuno faccia domande sui sistemi usati per rintracciarli e rimpatriarli. L’ufficiale, opportunamente istruito, non solo non dà alcuna garanzia d’impunità per i misteriosi protagonisti del blitz, ma diffida apertamente l’av vo c a t o dal commettere reati. Con questo, i rapporti si interrompono. Borrelli, costantemente informato dai rapporti scritti di Davigo e dei carabinieri, si allarma: sono in atto interferenze straniere? Assieme al procuratore generale Giulio Catelani decide di coinvolgere il capo dello Stato. I due magistrati chiedono udienza a Oscar Luigi Scalfaro, che li accoglie con una grande cortesia che diventa però freddezza e imbarazzo, via via che Catelani e Borrelli spiegano il motivo della visita. Il presidente fa capire che la questione non è di sua competenza e li congeda. Un anno dopo, arriva una seconda, inattesa puntata della storia. l’autunno 1993. A Milano il giudice Guido Salvini è impegnato nell’ultima indagine sulla strage di piazza Fontana. Biagio Pitarresi, personaggio dell’ambiente neofascista che ha accettato di collaborare alle indagini, gli confessa di essere in contatto con un uomo della Cia a Milano: Carlo Rocchi, che lavora da decenni per gli americani, è stato l’ultimo a vedere Michele Sindona vivo in carcere e ha rapporti anche con il capocentro del Sisde a Milano, che chiama ”dottor Rinaldi”. Rocchi – dice Pitarresi – gli ha chiesto di passargli informazioni sulle indagini di Salvini su piazza Fontana, ma anche su un’al - tra indagine in corso a Milano: quella di Mani pulite. ”L’ultimo favore richiestogli”, conferma un rapporto del Ros in data 17 dicembre 1993, ”era stato quello di rintracciare il Larini prima che lo trovassero le forze di polizia italiane... In relazione a tale sollecitazione giunta al Pitarresi, si rappresenta che lo stesso, nel corso dell’ultimo colloquio, faceva presente che tra qualche mese sarebbe stata effettuata un’operazione di screditamento del Dr. Di Pietro, basata su un servizio da esso prestato presso la polizia di Stato”. La profezia si avvera: qualche mese dopo, il Gico della Guardia di finanza di Firenze tenterà di coinvolgere Di Pietro in un’indagine sulle presunte coperture concesse, quand’e ra poliziotto, a un gruppo di mafiosi che avevano base all’auto - parco milanese di via Salomone. Basta un controllo ai tabulati telefonici per chiudere il cerchio: Rocchi è in contatto con l’architetto De Mico. E una perquisizione dei carabinieri scopre nel suo ufficio una fotocopia del passaporto di De Mico. Diciassette anni dopo quella strana vicenda, Davigo e Di Pietro non hanno ancora maturato certezze. Fu davvero un’intro - missione della Cia, o un’inizia - tiva personale di De Mico? Fu ”un trappolone”, un tentativo di indurre il Pool a qualche passo falso? Di certo c’è soltanto che, se la Cia intervenne davvero, non fu per aiutare, ma per controllare, ed eventualmente mettere in difficoltà, Di Pietro e la sua indagine.