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 2010  febbraio 07 Domenica calendario

MATTEO RICCI E L’INVENZIONE DELLA CINA

Nel 1610, l’anno della sua morte, il centro del mondo sembrava ancora che fosse l’Italia, e in particolare Venezia, la città che stava guidando la guerra contro la maggiore potenza del tempo, l’impero turco. L’Inghilterra di Elisabetta I si sentiva provinciale, tanto che un «commediante» locale, tale William Shakespeare, morto solo pochi anni dopo, nel 1616, ambientò molte sue opere proprio in Laguna, così come oggi scrittori italiani a caccia di una luce internazionale chiamano i loro protagonisti John o Tom.
Era un mondo di percezioni errate, come la storia avrebbe provato di lì a poco. Il centro del pianeta si era infatti spostato dal Mediterraneo all’Atlantico, e l’eroe che marcò il futuro non era un Doge e neppure il re di Spagna, ma un pirata poi elevato a baronetto sir Francis Drake.
In un’Europa che non aveva nemmeno capito cosa stava accadendo intorno alle sue coste, che non percepiva il cambio epocale culturale e ideale portato dalla scoperta dell’America, il gesuita Matteo Ricci alla fine del ”500 intraprese il suo viaggio per la Cina allora misteriosissima e oggi solo un po’ più chiara. Nella sua monumentale Storia del pensiero cinese (Shanghai 2001) il filosofo Ge Zhaoguang gli dedica ben due capitoli, attribuendogli un contributo fondamentale in un cambio di visione del mondo in Cina. A quel tempo i cinesi non avevano una percezione etnica di se stessi. Semplicemente, se uno parlava cinese, si comportava da cinese, era cinese. Allora «cinese» si diceva solo «huaren», persona civilizzata, colta, contro i barbari che erano rozzi e incolti. Ricci che aveva imparato il cinese, si comportava da cinese, venne considerato dagli uomini della corte imperiale un «cinese-civilizzato».
A questo punto però Ricci gelò gli interlocutori rovesciando il tavolo. Disse che sì era civilizzato, ma di un’altra civiltà. Questo ragionamento sconvolse l’imperatore. La Cina allora si chiamava «Tianxia», tutto quello che è sotto il cielo, non nel senso che fuori dei confini cinesi non c’era più niente, ma nel senso che fuori dell’impero non c’era più civiltà. Il gesuita invece diceva che fuori dell’impero c’era un’altra civiltà altrettanto importante. E argomentò il caso in maniera convincente. Lui era portatore di conoscenze nuove, avanzate, aveva padroneggiato i modi cinesi: ciò dava credito alle sue affermazioni. All’inizio del ”600, allora, l’imperatore Ming Wanli gli commissionò una mappa del mondo. Qui Ricci si trovò ad affrontare tanti problemi: come chiamare il paese che sentiva di essere «tutto quello che è sotto il cielo» in una mappa effettiva di tutto quello che è sotto il cielo? E come giustificare che la Cina era molto più piccola di quanto l’imperatore potesse percepire?
Il gesuita risolse il prima problema ripescando un nome antico che la dinastia Song meridionale (1127-1279) aveva usato per identificarsi rispetto ai Mongoli e i Khitan al Nord, e che in tempi antichissimi indicava gli Stati della pianura centrale rispetto a quelli più esterni. Il termine era «Zhong guo», lo Stato di mezzo, e in onore alla definizione mise la Cina al centro della sua mappa, con l’Europa a sinistra e l’America a destra, cosa che compensava la sua dimensione ristretta.
Questa carta, del 1602, diede ai cinesi l’idea che la loro identità non poteva essere basata sull’antitesi civile/incivile, ma che dovesse esserci un senso di identità diverso di tipo «nazionale», di popolo. Era un cambiamento profondissimo della percezione di sé e del mondo, rafforzato con la successiva caduta della dinastia Ming e l’inizio della nuova dinastia straniera, mancese, dei Qing (1644-1911) che organizzò la popolazione a seconda dell’origine nazionale: mancesi, mongoli, cinesi. Sotto i Qing comunque continuarono a operare e lavorare i gesuiti seguaci di Ricci, ottenendo posti di enorme potere, che oggi sarebbero di ministro, fin quando, nel ”700, il Papa ordinò loro di lasciare la Cina.
Per questo contributo culturale enorme, simile forse a quello di Kant in Occidente, Ricci ha avuto da secoli un posto speciale nella storia cinese. La sua tomba è sopravvissuta a quattro secoli di cambiamenti tumultuosi, guerre e invasioni, e oggi è conservata all’interno del cortile della Scuola del partito di Pechino. Il governo dell’ufficialmente ateo partito comunista prevede per l’anno della Cina in Italia (ottobre 2010-ottobre 2011) di portare una mostra di un seguage di Ricci, il gesuita Giuseppe Castiglione (1688’1766), divenuto pittore di corte dell’imperatore cinese.
Ma se per la Cina Ricci è una pietra miliare, per l’Occidente rimane controverso. Da noi gli si preferisce da sempre Marco Polo, di cui i cinesi non avevano mai sentito parlare prima del periodo contemporaneo. Soprattutto l’Occidente non è ancora convinto della bontà del metodo gesuita: prima convertirsi alla cultura cinese e poi convertire la cultura cinese come un contributo alla cultura cinese e alla cultura del mondo. Il metodo rimane infatti difficilissimo, nel doppio ostacolo di entrare e uscire da una cultura così diversa, mentre i risultati, ovvi e importanti per i cinesi, restano sfuggenti per gli occidentali. Così a quattro secoli dalla morte Ricci rimane come nel 1610, fondamentale per la Cina e spinoso per noi: ma forse questa è la vera prova della forza attuale del suo insegnamento.
Francesco Sisci