Salvatore Silvano Nigro, Serena Danna, Il Sole-24 Ore 7/2/2010;, 7 febbraio 2010
IL PASTICHEUR LOMBARDO
Tra «chicchere e chiacchiere», Arbasino, nello Specchio delle mie brame,
imbandisce un menu di ghiotti aneddoti. Il servizio prevede leggerezza, sbadata in apparenza. E invece sempre più avanza, all’ombra della Regina Cattiva di Biancaneve che in copertina incrocia le braccia, un gusto provocatorio di efferate
gauloiseries. Si comincia con il «principe grullo che in occasione di un duello fa voto di pellegrinaggio a piedi in Terrasanta, poi calcola con esattezza la distanza fra Palermo e Gerusalemme e la percorre giorno per giorno nel parco facendo delsalutare footing per vent’anni col servo dietro e un ombrellone di bibite fresche». Si arriva allo sberleffo del barone von Gloeden che, durante una fantomatica campagna fotografica, contrappone le pose classiche e travestite del suo verismo paganoa quelle trezzote di Verga: «Ella tiene a bada il vecchietto con le sarde e la pipa davanti alla barca naturalistica, mentre io mi apparto con gli ellenistici e i dorici dietro gli ibischi e le istmiche». Verga non ha la sfrontatezza del barone. Ma già conosce di che lacrime grondi, e di quali gramaglie si vesta, la (pirandelliana) jettatura. Si impettisce. E forse mal augurando, finge di mettere in guardia il baron tedesco: «Attento ai fichidindia», dice sornione; e da bravo novelliere rusticano.
Sono chiacchiere palermitane, questi microracconti che Arbasino ricicla dentro il Kitsch del suo romanzo, che è anche un trattatello sul Kitsch: per quella invenzione narrativa che, nelle opere di Arbasino, si combina sempre con uno spiccato talento saggistico e con la vocazione a infarcire di racconti (grandi o piccoli che siano) ogni singolo romanzo. L’"ambiente" c’è,in questi aneddoti.Lo assicura una glossa metanarrativa. Ma quel gran pasticheur che è Arbasino, non pensa certo al realismo becero. Già da tempo ha finito di scontrarsi con «un certo realismo» che, almeno per quel suo vezzo di presentarsi in giro con un "neo" in fronte, si legge nell’ Anonimo lombardo , «non si è proprio mai riusciti a prendere sul serio». Come già aveva fatto Carlo Dossi, il lombardo Arbasino vuole che nella letteratura passi la conversazione di una società, la vita: trasformando il romanzo in «una commedia mondana travestita da dialogo di idee»; e reinventando il « sound del linguaggio parlato» sulla pagina del romanzo conversazione, che sa discutere di se stesso in quanto scelta romanzesca e sa mescolare e agglutinare i vari generi letterari, e musicali, fino al recupero del cabaret pop nel
Super-Eliogabalo. Dietro le scelte di Arbasino premono le "eversioni" stilcritiche di Dossi («Vedere la realtà per elenchi» e per magazzini di pensieri) e di Gadda, che della «madornale figura retorica dell’Enumerazione» (è spiegato in Certi romanzi ) aveva fatto un modello di lettura pluriprospettica della realtà.
Arbasino è un conversatore "scritto", diceva Manganelli. Sulla pagina tratta le parole come materia sonora. La sua voce "scritta" gioca dottamente con le citazioni. Si fa maliziosa, ha sottigliezza intellettuale, va in falsetto, replica e manomette le fonti (un intero dramma di Calderón de la Barca, nel Principe costante ), prevarica con le rime, opera trasferimenti verbali dalla pittura. Nei racconti che compongono Le
piccole vacanze, un addio al «giallo paese» e alla «Casa Lunga» strizza l’occhio all’addio dei Promessi Sposi ; e la «signora Scorticacazzi » fa ogni giorno «cose da pazzi». Dentro il romanzo Fratelli d’Italia , il narratore incunea una pala d’altare, la Deposizione di Santa Felicita del Pontormo:
«un Pontormo di jeans di velluto a zampa d’elefante per mettere in valore tutto quello che abbiamo davanti e dietro, color ciliegia, pesca, albicocca, diverse prugne e mele acerbe e mature, e altri frutti che non sempre si frequentano, e quindi accrescono le chances del gusto picaresco anche al tatto...». E qui l’ecfrasi gaglioffa trasferisce i colori di un intero frutteto, segretamente maturato in un saggio di Giuliano Briganti dedicato alla maniera italiana.
facile a questo punto parlare di frivolezza arbasiniana. Ma frivolo Arbasino lo è, nel senso che i moralisti classici davano al termine; e che lo stesso Arbasino adotta in un saggio su Ennio Flaiano: «Bisogna proprio travestirsi da grandi frivoli per far intendere le cose più serie »; e cioè la compenetrazione di tragedia e di farsa, in uno stile che si dà come materiale di costruzione e si pone insieme, al quadrato o al cubo, come ironia (diceva Giuliano Gramigna) «della stessa nozione di stile».
La «conversazione di idee» è, nell’opera di Arbasino,un materiale di testimonianza:un’attualità che diventa memoria e " frivola" trafittura del presente, del suo stato culturale, delle sue precarietà, delle illusioni e dei vezzi; e si aggiorna, in quanto ritratto collettivo di un’epoca che vive se stessa in costume, attraverso quella rilettura d’autore che è la riscrittura delle opere. Si pensi al romanzo Fratelli d’Italia, quattro volte restituito al pubblico, di volta in volta riletto e rivisto dall’autore, in un arco di tempo che va dal 1963 al 1993.
I romanzi e i racconti di Arbasino, che i Meridiani raccolgono nei due tomi mirabilmente curati da Raffaele Manica, fanno tutti insieme una strutturata memoria culturale del secondo Novecento: un romanzo storico disteso in due volumi, e lungo mezzo secolo. La riconfezione editoriale di questo sfolgorante romanzo si avvale di un saggio introduttivo denso e intrigante; di una «Cronologia» che è un racconto critico a due voci, del curatore e dell’autore; e di un doppio apparato storico-filologico. Il primo apparato è direttamente gestito da Arbasino. Riproduce le copertine, i risvolti, i segnalibri, le note d’autore, delle varie edizioni.
A ribadire che le copertine fanno parte dei libri, legate come sono alla storia della grafica e del gusto, alle strategie editoriali, alla storia della ricezione. Arbasino deve aver pensato a lungo a questo apparato.
Già nel marzo del 2003, in una lettera inedita, scriveva: «Per La caduta
dei tiranni avevo chiesto a Elvira Sellerio di cercare una stampa rivoluzionaria con una presa della Bastiglia simile all’abbattimento del Muro di Berlino.
Trovò un contadino in rivolta che andava bene lo stesso. Per Le piccole vacanze rimasi male, invece, perché Calvino e Fonzi e Foà vi misero un Maccari (per associazione col «Mondo»). Ma per me Maccari "faceva generazione vecchia"». Salvatore Silvano Nigro • «LA LETTERATURA? UNA SERVA» - C
hi è nato dopo il 1980 vive con il telefax lo stesso rapporto che ha con il giradischi: sa cos’è e forse come funziona ma di fatto non lo usa mai. Alberto Arbasino, invece, utilizza solo il telefax. Accompagnato, all’occorrenza, da una segreteria telefonica che annuncia le ricezioni avvenute e gli imbarazzi dell’interlocutore. Comunicare con lo scrittore nato a Voghera nel 1930 è un’operazione a metà tra il divertissement e un test di ammissione. Tutta la sua vita da letterato e studioso d’avanguardia (anzi neoavanguardia, come amavano dire «quelli del Gruppo 63» per differenziarsi dagli esperimenti degli inizi del ’900 )lo è.Ma vietato chiamarlo intel-lettuale: «Io non sono un "intellettuale" come quelli che lo considerano " un ruolo"», dice. «Non avranno altre professioni? Una ne avrei: scrittore. Ma essendo privo di vanità, non lo metto sulle carte intestate».A differenza di qualcuno che in passato si è sentito " mestierante" con carta e penna. «Quando usavano i biglietti da visita, un Premio Nobel lo metteva sotto il nome – " scrittore" ”e senza il telefono ». Chi fosse non lo dice, proprio lui che con le liste di nomi ci ha riempito la testa di dolce vita italiana e sogno americano. Come quando scriveva: «Nei nostri remoti anni 50 e 60, posso ricordare che frequentavo soprattutto Calvino, La Capria, Malerba, Ottieri, Parise, Pasolini, Testori, di poco più anziani. Ei maestri di due generazioni prima: Gadda, Longhi, Palazzeschi, Praz». Post boom economico arrivano i " giovani arrabbiati" del Gruppo 63, il movimento letterario che si costituì intorno a Luciano Anceschi a Palermo nell’ottobre del 1963, con loro «le nuove affinità o congregazioni: soprattutto con Eco, Giuliani, Guglielmi, Manganelli e Sanguineti».
Poi le calde serate romane tra Rosati, il Café de Paris e Doney: «Erano tutti a via Veneto: Fellini, Flaiano, Sandro De Feo, Ercolino Patti ». A proposito del rapporto tra il regista della Dolce vita e il gruppo del «Mondo», Arbasino – che ha stroncato il film cinquant’anni dopo – racconta a Gabriele Pedullà in Riga nr.
18 : «Quando Fellini ha cominciato a girare il film, la prima cosa che ha fatto è stato mandare i suoi assistenti dagli amici del "Mondo" o proporre lui stesso agli habitués
di via Veneto: "Vorreste venire domani sera o stanotte a Cinecittà a partecipare alle riprese? Non dovete fare niente, solo stare lì ai tavolini a fare quello che fate di solito"».
E poi la Milano di «Quasimodo, Testori, Citati, Montale», dove il futuro direttore Indro Montanelli sognava «una gauche più borghese nell’ordinaria Milano moderna». Infine l’America, la Francia, il mondo. Scriveva sul «Corriere della Sera»: «Ho fatto in tempo a conversare con Auden, Borges, Brodskji, Céline, Eliot, Forster, Jouhandeau, Mauriac, Nabokov. E anche con Adorno, Aron, Brandi Bellow, Cocteau, Compton-Burnett, J. Green, Henry Miller, Simenon, Spender, Edmund e Angus Wilson; e a pubblicare i relativi dialoghi ». Non che sia riuscito a entrare in buoni rapporti con tutti: «Da Pound ebbi solo una risatina e una parola: "No". La sola che ebbi da Beckett fu "Thank you", perché stavo zitto».
Un patrimonio di uomini e idee che si scontra con la povertà culturale di oggi. «Trasgressioni, provocazioni, irriverenze impietose e scomode... Controcorrente? Fuori dal coro? Ma va là, questo significa sistemarsi nelle correnti e nei cori. Posti stabili, con poi la pensione». E il dibattito in corso sugli intellettuali? «Quattro chiacchiere per quattro gatti!». In definitiva gli intellettuali contemporanei sono per l’autore di La vita bassa «persone informate sui gatti».
Arbasino, che si è definito uno «scrittore espressionista e non barocco», perché «l’espressionismo non rifugge dall’effetto violentemente sgradevole, il barocco lo fa: è beneducato », non ha paura di essere tranchant.
Lo è con l’Italia, perennemente «paese senza », come recita il suo libro scritto nel 1980 e riscritto dieci anni dopo, e con il suo problematico rapporto con l’estero: «Parlerei di colonialismo, ogni volta che si bada al "prestigioso estero" con complessi di inferiorità, mentre si viene considerati pasticcioni pittoreschi da qualunque straniero ». Lo è con il futuro: «Certamente i media omologheranno e omogeneizzerano le menti e i cuori. Tanti auguri! ». Seppure con una riserva, lo è con la let-teratura: «Non è mai "servita" a niente. Meno che meno, adesso. Però ha spesso tentato di "mettersi a servizio" di qualcuno o qualcosa. E quando fa la serva si vede subito e viene magari considerata un po’ puttana. E così tanto peggio per lei».Ma ecco una fiammella di speranza: «Eppure la letteratura apre e muove tante idee, originali e talvolta grandiose; e può fare un magnifico lavoro nella manutenzione del passato: la Tradizione come conoscenza anche sul campo». Per esempio? «Basta riflettere su Dante Alighieri: se l’è cavata benissimo anche senza conoscere ben sei secoli di letteratura, arti e musica. E anche senza voler prevedere Michelangelo o Verdi, ma trattando dell’Eneide e non dei Promessi sposi ». Così per il futuro prossimo, il "nipotino" di Carlo Emilio Gadda che ha da poco compiuto 80 anni e resta un’icona di eleganza, con la sua erre moscia e le cravatte di seta, ha quasi pronta per Adelphi «una grossa raccolta delle scoperte fatte in America negli anni 50 e 60: cioè Harvard, Broadway, California, Off-off».
Lo scrittore, che ebbe un giovanissimo Henry Kissinger come professore e Italo Calvino come primo editor (davanti al pacco di racconti Calvino gli disse: «Lo so che ti sanguinerà il cuore, ma è più savio debuttare con cinque pezzi, e non con quindici. Oltre tutto casca sempre l’asino al secondo libro, mentre il tuo secondo eccolo già qui»), ha un rimpianto: «Poco tempo per allestire un grosso volume di ritratti e ricordi italiani già pronti in gran parte e in ordine alfabetico, da Agnelli e Anceschi a Zeri e Zolla». Dove quel «già pronti» lascia immaginare che il telefax oggi riceverà parecchie offerte di aiuto. Serena Danna