Laura Anello, La Stampa 7/2/2010, pagine 1 e 19, 7 febbraio 2010
LA CHIESA-PALLA DI GIBELLINA
Se non è la replica siciliana di don Camillo e Peppone, poco ci manca. Già, perché qui a Gibellina, la terra dell’utopia post-terremoto, l’atelier a cielo aperto dove cinquantatré opere d’arte sembrano piombate in terra come il monolite di Odissea nello spazio, l’inaugurazione della chiesa «Sfera» di Ludovico Quaroni è diventata un caso che spacca il paese. E che vede da una parte il sindaco, il quarantenne Vito Antonio Bonanno, e dall’altra il parroco, Rino Randazzo, più giovane di un lustro.
E già: la chiesa a forma di palla progettata nel 1970, in costruzione dal 1985, crollata per colpa di calcoli sbagliati nel 1994 e ora pronta a essere aperta al culto il 27 marzo, per mezza Gibellina è una «pupa», un giocattolone, niente a che vedere con una chiesa vera.
Tanto che, nell’attesa infinita che venisse completata, i fedeli se ne sono costruiti un’altra a forza di collette, quasi alla chetichella, arrampicata su uno strapuntino di terreno nella zona artigianale, inaugurata due settimane fa: piccola, tradizionale, dedicata a San Giuseppe , con il campanile e la cappella. Sarà un caso, stizzosamente rivolta con le spalle al Comune. «Il vescovo - dice il parroco - verrà a consacrare anche la chiesa di Quaroni, ma quella è un’opera d’arte, peraltro di proprietà del Comune. La gente riconosce questa come punto di riferimento». Il sindaco, in sella da dieci anni e a fine mandato, la vede così: «La chiesa di San Giuseppe? L’ho ereditata. Dal punto di vista urbanistico, un’assoluta anomalia. Non mi auguro certo che chiuda, ma spero vivamente che la comunità riconosca nella Sfera la sua Matrice, che lì si raccolga per le celebrazioni più importanti. Inadatta a essere una chiesa? Per il vescovo risponde ai canoni liturgici».
Il vecchio arciprete di Gibellina, Pietro Inzerillo, predecessore di don Rino, la pensava diversamente: per lui quella palla in eterna costruzione era quasi roba da miscredenti, con i suoi richiami all’Islam. E in paese non fanno che raccontare dell’eterno braccio di ferro con il sindaco di sinistra Ludovico Corrao, il padre fondatore di Gibellina nuova, il visionario che profetizzò un destino salvifico nell’arte per la città pianificata a tavolino a Roma dai geometri dell’Istituto per la ricostruzione, l’uomo che chiamò a raccolta nella Sicilia profonda da Pietro Consagra ad Arnaldo Pomodoro, da Fausto Melotti a Emilio Isgrò.
Oggi il sindaco comunista non è, e il parroco appare un giovane aperto al dialogo. Ma la disputa, post-ideologica, è tutta lì. E rivela il dramma mai risolto di un paese sradicato, privato dei suoi punti di riferimento (cortili, vicoli, piazza, panchine) e precipitato dentro un’utopia. «Camminiamo nel deserto e ancora non abbiamo trovato la Terra promessa», sintetizza Giacomo Tortorici, saggio del paese che porta in giro i turisti più per vincere la tristezza che per far soldi, mostrando le piazze maestose e deserte, le opere d’arte che perdono pezzi, i giganti incompiuti che aspettano ancora i soldi della ricostruzione, la promenade - così si chiama - dove passeggiano due cani randagi.
In mano ha le fotografie del paese che fu, con la madre che sferruzza a maglia davanti alle baracche, le macerie della chiesa con brandelli di madonne affrescate, le marce organizzate da Danilo Dolci, il sociologo che condusse le battaglie per il riscatto di una terra devastata il 14 gennaio 1968 da una sequenza di scosse che fece 370 morti, mille feriti, oltre 70 mila senza casa. Le ultime quaranta palazzine qui a Gibellina sono ancora in costruzione. Ecco perché la battaglia sulla nuova chiesa di Quaroni è molto più che una disputa estetica. il termometro del disagio di chi ha perso le sue coordinate e si aggrappa a un brandello di normalità, a una chiesetta tradizionale che sembra quasi in bilico sul lago - ridotto a palude - progettato per fare da quinta al «Contrappunto», la gigantesca scultura di Melotti. L’utopia del riscatto nel segno dell’arte resse fino ai primi anni Novanta, sostenuta dal carisma di Ludovico Corrao (ora presidente della Fondazione Orestiadi) e dai robusti finanziamenti che arrivavano da Roma per festival teatrali di prim’ordine, artisti, costruzioni avveniristiche.
«Ma il bombardamento culturale promosso da Corrao non è riuscito a diventare occasione di sviluppo permanente», sintetizza Alessandro La Grassa, direttore del Cresm, Centro di ricerche economiche e sociali per il Meridione. I giovani sono scappati, i vecchi si aggirano «tra immensi spazi e sovrumani silenzi», dice Tortorici. E anche una chiesa riapre le ferite.
Laura Anello