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 2010  febbraio 06 Sabato calendario

IL RISORGIMENTO? UN IDILLIO AL MARE

Il proprio ideale lo dichiarò nel 1848, al Parlamento di Torino. Durante il dibattito dedicato all’annessione della Lombardia, nel suo forse unico discorso da deputato del collegio di Taggia, Giovanni Ruffini sostenne che «l’Italia doveva essere una, con Roma capitale». A quel punto Ruffini era già passato attraverso il crivello delle illusioni deluse.
Coinvolto dalla febbrile emotività di Mazzini, conosciuto alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Genova, dove era nato nel 1807, affiliato alla Carboneria e tra i primi iscritti alla Giovane Italia, aveva dovuto prendere presto la strada dell’esilio. Prima la Francia e poi la Svizzera, a Grange, affiancando l’esangue amico Pippo Mazzini nella propaganda unitaria. Con sul cuore il peso della morte del fratello Iacopo - in carcere aveva preferito svenarsi piuttosto che svelare i nomi dei compagni cospiratori - Ruffini andò sempre più scostandosi dalle idee dell’amico, dubitando della validità e dell’inutilità di moti violenti. Era stato, con il fratello Agostino, uno dei maggiori agitatori della fallita spedizione contro la Savoia.
A quel punto Londra poteva essere un luogo più adeguato alle sue riflessioni. Vi si recò nel 1837. Per vivere rigava a macchina carta per musica. L’autorevole esule Panizzi gli procurò lezioni di italiano. Preparò il libretto del Don Pasquale per Donizetti e iniziò a scrivere, in inglese, il primo dei suoi due romanzi più famosi, Lorenzo Benoni. La propria autobiografia. Uno specchio metaforico del caso Italia. Ruffini elaborò con il suo romanzo un’ipotesi di ideale riscatto del proprio Paese attraverso la rievocazione degli anni giovanili, nella sua città natale, Genova, che il Congresso di Vienna, nel 1815, aveva assegnato al Piemonte governato dal regime assoluto e dispotico di Carlo Felice. Il governo piemontese di allora, evocato nel romanzo, era quanto di più arbitrario e reazionario si potesse immaginare. Il clero aveva una posizione predominante nell’istruzione. Per mezzo di continui soprusi, mirava a ridurre il numero degli studenti e a fare dei pochi degli automi sciocchi e ignoranti. Ruffini esalta nobili figure, personaggi simbolo interpreti dei suoi ideali: «modello» di Cesare, il fratello Iacopo; Fantasio, Giuseppe Mazzini; Eleonora Curlo, «affettuosa e santa», come Mazzini chiamava la madre dei fratelli Ruffini.
Il libro non uscì. Forse per comprensibile opportunità. Carlo Alberto, il nuovo sovrano del Regno di Sardegna, sembrava offrire prospettive ideali. Ruffini si avvicinò alla monarchia. Si candidò al Parlamento di Torino. Venne eletto. Gioberti lo nominò ministro plenipotenziario presso la Repubblica Francese. Con il disastro di Novara e l’abdicazione di Carlo Alberto, Ruffini si dimise da tutte le cariche. Rinunciò all’attività politica.
Da allora, per quasi un trentennio, visse tra l’Inghilterra, la Francia e la Svizzera. Esortato da Cornelia Turner, di tredici anni più anziana di lui, in un rapporto frammisto di infatuazione, collaborazione letteraria, premure materne e filiali devozioni, nel 1853, a Edimburgo, dopo una estenuata rielaborazione, pubblicò Lorenzo Benoni, con l’aggiunta di un capitolo sulle «Condizioni del Piemonte prima dello Statuto», illustrate per via di aneddoti.
Fu tuttavia con Il dottor Antonio, scritto anch’esso in inglese, e uscito nel 1855, contemporaneamente a Londra e a Parigi, che Ruffini svelò, per mezzo di un’opera letteraria, i problemi politici, sociali e umani degli italiani. Con l’intento di far apprezzare le bellezze dell’Italia e in particolare della Riviera, rese pubbliche le miserie e le sventure del popolo sotto il giogo di tiranni oppressori.
Al di là del romantico e casto idillio tra il dottor Antonio, esule siciliano, medico condotto a Bordighera, e la giovane Lucy Divenne, infortunatasi durante un incidente di carrozza, e la bellezza del luogo ove la vicenda si svolge, sullo sfondo del romanzo incombe il grande tema risorgimentale, con un esito drammatico. Il dottor Antonio, idealista dall’animo nobile, tornato nel Regno delle due Sicilie, viene travolto dai processi della reazione borbonica insieme a Carlo Poerio, Luigi Settembrini e altri. Tutti condannati a diciannove anni di carcere.
Con Il dottor Antonio, dietro alle amenità paesaggistiche e ai sottili vigilatissimi giochi di una convenzionale storia di innamoramento, Ruffini scrisse un «romanzo-denunzia». Memorabili le pagine sui processi a Napoli del 1850 e del 1851. Veri e propri resoconti di cronaca. Con Il dottor Antonio, Giovanni Ruffini voleva «raddrizzare la poco favorevole opinione sul nostro conto in Inghilterra». Sperava di spuntare i pregiudizi nei confronti dell’Italia che condizionavano la buona società di Vanity Fair.
Tentò altre opere narrative. Gli riuscirono di media qualità. Ed ebbero scarso successo. Nel 1861, con l’unità d’Italia, il tema a lui caro aveva avuto esito. Smise di scrivere. Non aveva più niente da dire. Era cominciata un’età grigia ed equivoca. Nel 1874 si ritirò a Taggia dove, in una languida immobilità provinciale, passò malinconicamente gli ultimi suoi anni. Fino al 31 novembre 1881, quando morì.
Giuseppe Marcenaro