Raffaello Masci, La Stampa 6/2/2010, pagina 21, 6 febbraio 2010
CINQUANTA PAROLE DA SALVARE
«Se la parola ”adunco” dovesse scomparire, sarebbe la fine delle favole» annota una gentile professoressa - Cinthia - sul blog della casa editrice Zanichelli che ha varato un concorso per le cinquanta parole da salvare. In effetti adunco è il naso delle streghe, così come il becco degli uccellacci minacciosi, e sia l’uno che l’altro non possono essere definiti - indifferentemente - come «curvo» o «uncinato» e, meno che mai, come «storto».
Tra le 120 mila parole - tecnicamente «lemmi» - dello Zingarelli, il curatore Mario Cannella e la sua redazione ne hanno individuate quasi tremila (2.800) che potrebbero ancora essere pienamente in uso, ma che di fatto stanno diventando desuete e abbandonate, col rischio di andare perdute. Di queste 2.800, duecento sono state identificate come un patrimonio irrinunciabile da un blog a cui hanno partecipato oltre 800 insegnanti, che hanno espresso 14 mila voti e hanno lasciato 600 commenti scritti. Cinquanta di queste parole - infine - sono state definite «da salvare»: o si usano o la comunicazione sarà svilita per sempre.
Le sfumature
«Queste parole da valorizzare - spiega Cannella - non sono classificabili in maniera uniforme, tuttavia hanno un denominatore comune: sono le parole che consentono di articolare il pensiero nelle sue molteplici sfumature. Il linguaggio di ogni giorno, specie quello dei massmedia, punta a concetti netti - bianco o nero - e noi abbiamo osservato come questa deriva condanni all’oblio tutte quelle parole che esprimono le mille gamme del grigio. Ma, attenzione, i – grigi” sono altrettanto veri del bianco e nero e ciascuno ha una sua identità non sovrapponibile a quella degli altri». Non solo «vanitoso» e «vanesio» non sono la stessa cosa, ma fragranza non è profumo, garrulo non è chiacchierone, solerte non è diligente, sapido non è saporito, fulgore non è luminosità. E mentre, in queste coppie, il secondo termine è di pubblico dominio, il primo resta nella disponibilità di un manipolo ristretto di aristocratici del linguaggio. E così le sfumature semantiche si perdono - dicono i lessicografi dello Zingarelli - e la lingua si appiattisce in una essenzialità che amalgama la varietà in una brodaglia espressiva buona per tutte le occasioni.
I numeri, in questo, dicono molto. Dei 120 mila lemmi dello Zingarelli, una persona di media cultura ne usa il 10% (12-13 mila), uno scrittore può più che raddoppiare questa cifra arrivando a 30 mila. E quindi una forte selezione del vocabolario è nei fatti, anche perché 10 mila termini sono arcaici e molti altri sono solo settoriali. «Ma ciò che lascia perplessi - dice il professor Cannella - è che il parlare di tutti i giorni è affidato a non più di 2.500 parole che da sole esauriscono l’80% di tutti i nostri enunciati». Una povertà imputabile soprattutto ai massmedia che per essere popolari sono banali, per essere accessibili sono approssimativi, per fare audience fanno pena. E non volendo apparire come virtuosi della lingua finiscono per essere imprecisi.
«Si, certo - aggiunge Cannella - test, quiz, questionari e altri strumenti di valutazione usati nella scuola non giovano all’estensione del vocabolario, così come sms, chat, twitter, i tempi televisivi, le gabbie grafiche dei giornali e tutto ciò che punta al risparmio espressivo. Però il problema vero non è che non abbiamo spazi e tempi, ma semplicemente che non conosciamo le parole per dire ciò che vogliamo dire. I Sonetti sono sempre stati di due terzine e due quartine, eppure sono bastati per dire cose eccelse. O no?».
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Massimo Arcangeli è il direttore dell’Osservatorio sulla lingua italiana, nonché ordinario di linguistica italiana nell’Università di Cagliari.
Di chi è la colpa di questo impoverimento della lingua?
«Di chi dovrebbe insegnarla e diffonderla: la scuola, l’università, l’editoria, il giornalismo. Tutti soggetti che, con il pretesto di farsi capire, si attestano di fatto sul livello più basso di comunicazione, confondendo semplicità con semplicismo. Non prendiamocela, invece con gli sms, gli studenti e il loro slang, in quanto ciascuna di queste realtà ha un suo perché. E i ragazzi hanno sempre parlato un loro linguaggio»
Quali sono i rischi maggiori di questo fenomeno?
«Difficoltà a memorizzare, difficoltà a riconoscere molti oggetti, ma anche - e questo è molto grave - difficoltà relazionali, in quanto chi non sa parlare non sa verbalizzare neppure ciò che intende esprimere. Quindi si fa capire male e ha un cattivo rapporto con gli altri».
Ci sono anche rischi per la collettività?
«Quando la semplificazione arriva alla politica, c’è il rischio di una comunicazione manichea: o bianco o nero, questo e giusto e questo è sbagliato, e si perde l’opportunità di esprimere un ragionamento articolato. Questo dà ai politici la sensazione di arrivare subito al cuore dell’elettore, ma dietro ogni linguaggio semplicistico c’è un inganno, perché la realtà quasi mai è semplice e un linguaggio povero è un linguaggio intrinsecamente manipolatorio».
Raffaello Masci